Il 2017 passerà alla storia come l’anno in cui la pressione migratoria in Europa è drasticamente diminuita. Contemporaneamente, mai come oggi in alcuni paesi europei si grida all’invasione dei migranti che metterebbero in questione la convivenza e la stessa identità nazionale. Come si spiegano questi due fenomeni apparentemente contraddittori? Conviene esaminarli separatamente, per poi esaminarne la connessione.
Tra la primavera del 2016 e l’estate del 2017 si è notevolmente ridotta la portata dei flussi migratori Sud-Nord lungo le tre classiche rotte: l’occidentale (Marocco-Spagna), la centrale (Libia-Italia) e l’orientale (Turchia-Grecia). Nel primo caso soprattutto per iniziativa del Marocco, uno dei pochi Stati effettivi e relativamente efficienti del continente africano, grazie anche al sostegno della Spagna e, sulla frontiera meridionale, della Mauritania. Oggi lungo questa tratta, che punta verso le exclavi spagnole di Ceuta e Melilla incistate in territorio marocchino, transitano poche migliaia di persone all’anno.
Il secondo caso riguarda in particolare l’Italia, che negli ultimi tre anni era diventata il grande collettore di migranti in provenienza soprattutto dall’Africa profonda, i quali attraversando il deserto raggiungevano le coste libiche, in mano a milizie e trafficanti d’ogni risma, da cui i più fortunati, via Canale di Sicilia, giungevano nella penisola. Quasi tutti puntavano verso il Centro-Nord d’Europa. Destinazioni preferite Germania, Gran Bretagna, paesi scandinavi, ma anche Svizzera. Le autorità italiane, di ciò consapevoli, chiudevano un occhio o due nella fase decisiva del controllo d’identità dei migranti appena sbarcati, di fatto invitandoli a varcare le Alpi. La pressione differenziata ma congiunta di Francia e Germania, ma anche di Svizzera e Austria, che hanno rafforzato i controlli di frontiera, ha gradualmente costretto l’Italia a mantenere sul proprio territorio la maggior parte dei migranti e degli aspiranti rifugiati. Sicché il Belpaese da tapis roulant verso l’Europa si è trasformato in Paese obiettivo, nel quale i migranti erano costretti a rimanere – e spesso allo sbando. Questo rischiava di trasformare l’Italia, attraverso il combinato disposto della (semi)chiusura delle frontiere alpine e del perdurante flusso da sud, in una pentola a pressione a rischio di esplosione.
La svolta in luglio. Il ministro italiano dell’Interno, Marco Minniti, convocava a Roma i principali capi tribali e delle milizie libiche per scambiare aiuti più o meno informali da parte italiana (ed europea) con l’impegno dei vari guardiani del deserto a filtrare i migranti. Operazione in gran parte segreta, gestita dalla intelligence italiana, particolarmente esperta di usi e costumi nordafricani. Risultato: questa estate, e ancora in autunno, i flussi Libia-Italia sono crollati di circa il 30%. Se l’anno scorso i migranti sbarcati in Italia sono stati oltre 180 mila, quest’anno non dovrebbero superare i 120-130 mila. I calcoli più ottimisti del governo italiano prevedono di dimezzare questa cifra entro due anni, rendendola più o meno stabile.
Contemporaneamente, Francia, Italia e Germania intervenivano sul governo nigerino per bonificare la frontiera con la Libia e in particolare lo hub migratorio di Agadez, sempre in cambio di aiuti economici. Intanto sul terreno nigerino si struttura la presenza militare delle maggiori potenze europee, anche con lo scopo di contribuire al contenimento dei traffici e alla lotta alle milizie jihadiste.
Sul fronte orientale, regge ormai da più di un anno il patto Merkel-Erdoğan, vestito da accordo Ue-Turchia, che ha di fatto disseccato la rotta che attraverso l’Egeo puntava sulla Grecia e di qui, via Balcani, verso la Germania e il Nord Europa.
Nessuno di questi tre corridoi migratori è sigillato. Gli equilibri e gli accordi formali e informali possono essere rapidamente rovesciati. In ogni caso, il fenomeno migratorio resterà un fenomeno strutturale con cui dovremo fare i conti per decenni almeno. Eppure quei paesi che avrebbero dovuto rallegrarsi per il rallentamento degli arrivi di stranieri a loro dire non integrabili, anzi pericolosi, e che si rifiutano di accogliere persino una manciata di rifugiati, continuano a fare il viso dell’arme. Perché?
La risposta è che la xenofobia prescinde dal dato di fatto, dai numeri, perché si nutre di una profonda ideologia identitaria. Questo almeno in gran parte dei paesi dell’ex Est europeo, dall’Ungheria alla Polonia, culturalmente e linguisticamente quasi monoetnici. Nulla a che vedere, con la Germania, dove 11 milioni di abitanti sono nati all’estero (più di uno su otto), della Francia, della Gran Bretagna, in minor misura anche dell’Italia. Sicché la questione migratoria, per quanto gestibile in termini di numeri, diventa ingestibile per la collisione fra culture politiche fra loro incompatibili. Che poi questi paesi partecipino tutti dell’Unione Europea è solo l’ennesima conferma che questa «Grande Europa» non è e non sarà per il tempo visibile integrabile in un’effettiva unità geopolitica tale da farne un attore della politica internazionale. Campo nel quale fra noi europei vale la regola «ciascuno per sé nessuno per tutti».