Poche ore dopo la doppia sparatoria di inizio agosto che tra El Paso, Texas, e Dayton, Ohio, ha ucciso 31 persone innocenti, sulle bacheche e sulle timeline dei social è comparsa una statistica che non lascia spazio a interpretazioni o dubbi sul gigantesco problema che vive l’America: nel 2019 negli Stati Uniti ci sono state 255 stragi a colpi di arma da fuoco, mentre nello stesso periodo ne sono state registrate soltanto tre in Messico, una a testa in Canada, Brasile e Olanda e zero in tutto il resto del mondo sviluppato. Duecentocinquantacinque stragi in sette mesi sono più di una al giorno e, se si considerano tutti gli episodi di violenza con armi da fuoco, compresi quelli non di massa, nei primi sette mesi dell’anno in America sono morte 8574 persone e 17.013 sono state ferite (dati Gun Violence Archive).
La domanda che tutti si pongono è per quale motivo le stragi a mano armata succedano con tale frequenza soltanto in America. È colpa dell’America o della facilità di accesso alle armi, o forse di entrambi?
Come capita inesorabilmente dopo ogni strage, anche in questo caso è partito il solito rimbalzo di responsabilità tra chi si batte per regole più severe sulla vendita di pistole e di fucili, fino a chiedere il divieto di vendita di armi da guerra, e chi spiega invece che le armi non c’entrano niente e che la colpa è soltanto degli squilibrati che sparano, magari dei videogiochi e di qualche altra mancanza della società contemporanea.
Ma le malattie mentali esistono in tutti i paesi del mondo, come ha commentato Hillary Clinton su Twitter, così come ovunque si gioca con i videogame, eppure si spara a raffica solo negli Stati Uniti. L’unica cosa che differenzia gli Stati Uniti dal resto del mondo è la facilità di accesso alle armi, e su questo c’è poco da discutere.
Ci sono anche altre specificità americane, culturali e politiche, a spiegare la violenza nichilista, visto che questo tipo di stragi non sono un fatto isolato ma quasi un codice, un rituale per denunciare la rabbia e l’alienazione sociale, una specie di antidoto all’aggregazione e, più recentemente, allo stile paranoico della vita digitale.
L’accesso alle armi facilita questi gesti estremi, anche se in America il possesso delle armi non è il prodotto caricaturale di una cultura bullista o machista, ma è collegato al principio della libertà e della difesa personale garantito dalla Costituzione e alla base degli Stati Uniti. L’America è una nazione giovane, priva delle astuzie europee, non conosce le alchimie del razionalismo nostrano ed è, per questo, un paese di grandi illusioni e di fermenti religiosi, di laicismo esasperato e di attesa dell’Armageddon. L’America vive ancora la psicologia della frontiera, è violenta e perentoria, capace di moralismi assoluti e di abbassamento della soglia minima di decenza. Questa è la sua caratteristica fin dalla fondazione e con essa convive da oltre duecento anni.
Oltre alla vicenda delle armi e all’aspetto storico-culturale, ad esasperare gli animi degli individui instabili e particolarmente influenzabili c’è anche una recente curvatura politica: il clima d’odio creato dal pulpito più autorevole del Paese, quello della Casa Bianca. Sono ormai anni che Donald Trump usa il suo ruolo per definire la migrazione ispanica come «un’invasione» nemica, lasciando proliferare le teorie cospirative intorno a un piano di Grande Sostituzione degli americani con gli ispanici. Trump ha chiamato gli immigrati «animali», «gentaglia», gli ha dato degli «stupratori», ha proposto di costruire un muro per tenerli lontani e ha imposto la detenzione di bambini in condizioni squallide al confine col Messico. «Come si ferma questa gente? Non si può», ha detto Trump in un comizio in Florida a maggio, facendo spallucce quando i suoi fan gli hanno risposto «spariamogli».
Il cosiddetto manifesto ideologico, postato dallo stragista di El Paso su 8chan, il forum prediletto dagli assassini di massa, contiene parole e concetti ripetuti spesso da Trump, e spiega che «questo attacco è una risposta all’invasione ispanica del Texas», anche se tiene a precisare che l’autore pensava queste cose da prima che fosse eletto Trump.
Ora il presidente è impegnato in una campagna per la rielezione nel 2020 incentrata sui temi dell’immigrazione, con un messaggio via social network e non solo che punta prevalentemente sulla paura dell’invasione ispanica al confine meridionale. Da gennaio, sono oltre duemila le pubblicità diffuse dalla campagna Trump su Facebook con la parola «invasione» a far da punto centrale dello spot. Non stupisce che poi qualche svitato passi dalle parole ai fatti. «Trump non si limita a tollerarli, ma li incoraggia e la gente poi agisce», ha detto il deputato di El Paso, e candidato alle primarie democratiche, Beto O’Rourke: «Va dicendo che alcune persone sono intrinsecamente difettose o pericolose facendo venire in mente le cose che si potevano sentire nel Terzo Reich, non quelle che ti aspetteresti negli Stati Uniti d’America».
Trump ha aspettato un paio di giorni per reagire da presidente alla strage di El Paso (foto) e Dayton. In un primo momento si era limitato ai tweet, poi ad ordinare le bandiere a mezz’asta, infine con un discorso alla Casa Bianca si è convinto a denunciare il suprematismo bianco e l’odio razzista, senza però fare cenno alla facilità di accesso alle armi, anzi collegando le stragi ai videogame violenti, alle malattie mentali e al fanatismo su Internet.
Di tono diverso, decisamente più presidenziale, le parole del suo predecessore Barack Obama: «Dobbiamo tutti rigettare in toto il linguaggio che viene fuori dalle bocche di alcuni dei nostri leader, parole che alimentano un clima di paura e di odio e normalizzano i sentimenti razzisti». Senza mai citare Trump, Obama ha denunciato quei «leader che demonizzano chi non ci somiglia o insinuano che altre persone, compresi gli immigrati, minaccino il nostro modello di vita o definiscono gli altri come subumani o lasciano intendere che l’America appartenga soltanto a un certo tipo di persone». Le armi e la cultura americana sono uno specifico degli Stati Uniti, ma viviamo il tempo in cui il linguaggio d’odio dei leader politici contro i diversi e gli immigrati è diffuso di qua e di là dell’Atlantico. Sarebbe il caso di rendersene conto e di fermarsi in tempo.