È stata salutata come una sorpresa positiva della Cop26, la dichiarazione congiunta che Cina e Stati uniti hanno firmato al summit di Glasgow. In quell’accordo le due superpotenze – che sono anche le due maggiori inquinatrici del pianeta – hanno annunciato la loro «ambizione rafforzata» di cooperare per ridurre le emissioni carboniche. La Cina in quell’occasione si è anche impegnata per la prima volta a tagliare il metano. Visto lo stato delle relazioni tra Washington e Pechino, la loro contrapposizione su quasi ogni altro tema, si capisce che sia stato accolto con sollievo il linguaggio cooperativo sull’ambiente. La creazione di una task force congiunta sino-americana per lavorare sul clima è stata giudicata dai più ottimisti come un segnale che le relazioni bilaterali, dopo aver toccato il fondo, stanno registrando il primo miglioramento da anni. Nel comunicato voluto da John Kerry e Xie Zhenhua, i due ambasciatori per il clima che rappresentavano i rispettivi Governi alla conferenza di Glasgow, mancava però qualsiasi impegno preciso: nessun numero vincolante sulle riduzioni, nessuna scadenza nuova. Greta Thunberg applicherebbe a quel testo la sua consueta critica: blabla. Ma le critiche di Greta e dei suoi giovani seguaci, riprese puntualmente e con enfasi da tutti i media occidentali, non hanno alcuna visibilità a Pechino.
Quali conseguenze ha l’assenza di una Greta a Pechino? La superpotenza più inquinante del pianeta è governata da un regime che lascia pochi spazi di autonomia alla società civile. Xi Jinping proprio di questi tempi in occasione del sesto Plenum del partito comunista sta rafforzando il proprio potere e il culto della personalità incentrato su se stesso. Da sempre la nomenclatura comunista diffida delle ong e negli ultimi anni gli spazi per i movimenti ambientalisti cinesi si sono ristretti ancor più. Questo significa che nel perseguire la lotta al cambiamento climatico Xi può proclamare le sue buone intenzioni davanti alla comunità internazionale, ma ha pochi conti da rendere in casa propria. Non esistono né i Verdi né una stampa libera, le proteste dal basso in occasione di catastrofi ambientali vengono represse o incanalate rigidamente dentro le strutture del partito. Questa mancanza di una vigilanza diffusa contribuisce a spiegare, tra l’altro, il fatto che il Governo di Pechino ha pubblicato il suo ultimo rapporto esaustivo sulle emissioni cinesi di Co2 nel lontano 2014, poi basta. Il resto del mondo deve usare metodi indipendenti come le foto satellitari per colmare le lacune di trasparenza della Repubblica popolare.
Il primato del partito comunista e la subordinazione della società civile non sono le uniche ragioni per cui non c’è una Greta a Pechino. Un leader come Xi, comunista e confuciano al tempo stesso, deve osservare il fenomeno Greta come una delle perversioni occidentali, una conferma del nostro declino. L’autorevolezza che i media occidentali riconoscono a Greta e ad altri suoi coetanei è inaccettabile in un Paese di tradizioni confuciane: nella cultura cinese sono gli anziani che vanno ascoltati e rispettati, la loro saggezza è un valore, nei rapporti gerarchici l’età è un fattore significativo (tanto più ora che Xi abolisce ogni limite alla durata del proprio mandato e si appresta a guidare il Paese ben oltre la soglia dei suoi settant’anni). In un’ottica cinese «il mondo salvato dai ragazzini» non è solo un miraggio del giovanilismo occidentale: peggio, è una pericolosa allucinazione. Perché nella storia della Cina stessa le rivoluzioni animate dai giovani sono associate al caos, alla violenza, allo spargimento di sangue. L’ultimo esempio fa parte della storia del partito comunista: nella Rivoluzione culturale Mao Zedong, per consolidare il proprio potere, aizzò i giovanissimi contro i loro insegnanti e genitori. Le Guardie rosse furono un fenomeno generazionale, contemporaneo al Maggio del ‘68 parigino ma molto più violento, una vera guerra civile. Lasciò traumi così terribili nel post-maoismo un’altra rivoluzione giovanile, la protesta di Piazza Tienanmen, fu soffocata nel sangue proprio paragonando quei giovani alle Guardie rosse. Che i giovani vengano idolatrati in Occidente per Xi è un segno sicuro che la nostra civiltà è in una decadenza terminale e irreversibile.
L’allergia di Xi al giovanilismo occidentale misura anche l’immensa distanza fra il pragmatismo di chi deve gestire la transizione energetica di 1,4 miliardi di persone e le fughe in avanti delle utopie ambientaliste nei paesi ricchi. Xi crede davvero nelle energie rinnovabili, al punto che i suoi sostegni all’industria dei pannelli fotovoltaici hanno fatto piazza pulita di molti concorrenti occidentali e hanno consentito alla Cina di dominare questo settore. È numero uno anche nelle pale eoliche. Ambisce a conquistare un dominio globale sull’auto elettrica, le batterie, i componenti essenziali della loro produzione inclusi i minerali rari. Ha il parco centrali nucleari più vasto del mondo e lo considera a pieno titolo fra le fonti rinnovabili. Ha stravolto i fiumi che nascono sulle montagne del Tibet per generare energia idroelettrica. Tutto questo non basta ancora, però. Messo alle strette nei mesi scorsi, con una forte ripresa economica e un boom delle esportazioni cinesi verso il resto del mondo, Xi ha dovuto prendere atto che la chiusura di tante miniere di carbone era stata prematura. Di fronte all’alternativa secca tra la disoccupazione e l’inquinamento, nell’immediato ha scelto di riaprire le miniere di carbone per far funzionare le fabbriche minacciate dai blackout elettrici. Xi non accetterebbe il rimprovero di una immaginaria Greta cinese. Il suo impegno per l’ambiente lui non lo considera certo blabla. Deve bilanciarlo con la realtà energetica di oggi, con le tecnologie esistenti. La Cina è sempre meno una Nazione emergente e sempre più una Nazione avanzata, ma non ha dimenticato che di fame si muore più che di inquinamento. Tutto il Sud del pianeta guarda al modello cinese e si dice che bruciare le tappe nella messa al bando del carbone avrebbe costi umani insopportabili.
Joe Biden in questo approccio realista non è molto diverso da Xi. Anche l’America è alle prese con uno shock energetico, uno dei motori dell’inflazione che intacca il tenore di vita delle famiglie. La bolletta media del gas naturale da riscaldamento per gli americani è rincarata del 30% quest’anno. Mentre da un lato si proclama come un sincero ambientalista, Biden lancia ripetuti appelli all’Opec (il cartello dei Paesi produttori di petrolio) perché aumenti la produzione di greggio in modo da calmierare l’aumento dei prezzi. Un’intesa inconfessata e poco pubblicizzata fra Biden e Xi ha portato a un boom di esportazioni di gas naturale liquefatto dagli Stati uniti alla Cina: in un anno sono più che triplicate. Il gas è un carburante fossile che emette Co2, ma in misura molto minore rispetto al carbone. È quindi una tappa intermedia, per ridurre le emissioni, in attesa che fonti pulite siano pronte a sostituirsi. In questo senso sia Xi che Biden sono sulla stessa barca: devono governare il mondo reale, scendere a compromessi, bilanciare le priorità. Il loro ruolo non si addice alla logica del «tutto e subito».
Perché non c'è una Greta a Pechino
Nessuno spazio per la sensibilità ambientale in Cina e non solo a causa della subordinazione della società civile al potere
/ 15.11.2021
di Federico Rampini
di Federico Rampini