La California per decenni ha incarnato il meglio dell’american dream, il sogno americano. Nel 1900 era quasi deserta, aveva la popolazione del Kansas; poi durante l’intero «secolo americano» è stata la meta di un’invasione che ha moltiplicato per venti volte i suoi abitanti (oggi sono quasi 40 milioni). Da qui sono nate a cicli periodici le grandi rivoluzioni creative che hanno ridisegnato la società, la cultura, l’economia: dalla Beat generation degli anni Cinquanta al Free speech movement del 1964 alla Summer of love del 1967. Dalla letteratura al cinema alla musica, in campo culturale. Dall’ambientalismo al femminismo al movimento gay, nella sfera valoriale. Sul terreno della tecnologia, dall’elettronica a Internet all’auto elettrica. Il contesto sembrava un mix ideale, il giusto dosaggio tra spirito libertario e imprenditorialità, tolleranza di ogni diversità e attrazione dei cervelli stranieri, fino a quello speciale humus finanziario che è la cultura del venture capital.
Oggi il modello-California è in una crisi profonda, sottolineata dalla scelta di Elon Musk (nella foto) di abbandonare la Silicon valley per trasferirsi in Texas: il secondo Stato Usa per popolazione e ricchezza, ma soprattutto il rivale storico della California, la vetrina del neoliberismo e paradiso fiscale repubblicano. Musk è l’uomo più ricco del mondo. Non è banale il fatto che già nel dicembre 2020 abbia «votato con i piedi», scegliendo di abbandonare la California. Il suo nuovo domicilio lo ha eletto nella capitale del Texas, Austin, a 2066 miglia dalla casa che possedeva fino al 2020 nella baia di San Francisco. Austin ospita la nuova sede sociale di Tesla così come il centro di SpaceX, l’impresa spaziale di Musk. È nel Texas che Musk costruisce la nuova giga-fabbrica di auto elettriche. Con la partenza della sede direzionale di Tesla, volta le spalle alla California un marchio simbolo dell’innovazione, che ha catturato la fantasia della «generazione sostenibile», e in Borsa ha sfondato il trilione (mille miliardi di dollari) quindi vale oltre dieci volte la General motors.
Il cinquantenne Musk è un personaggio anomalo per tante ragioni, a cominciare dal fatto che è un raro caso di miliardario digitale e ambientalista, ma politicamente di destra. In questo si distingue dall’establishment della West Coast, politically correct e generoso nel finanziarie tutte le cause progressiste, oltre che le campagne elettorali del partito democratico. Ma la sua scelta di ripudiare la California è motivata da un lungo elenco di rimostranze. Musk la descrive come un inferno per il business: «Troppe tasse, troppa burocrazia, i costi degli alloggi eccessivi penalizzano i dipendenti delle mie aziende, le infrastrutture scadenti rendono il loro pendolarismo un incubo». Il suo addio alla California non è il gesto isolato di un miliardario polemico. Al contrario, è la punta dell’iceberg di un fenomeno ben più diffuso e in atto da anni. La Tesla si accoda a un esodo di start-up tecnologiche che abbandonano la West Coast per migrare verso lidi più accoglienti. Che Musk sia l’interprete di un sentimento comune lo dimostra una delle sue iniziative apparentemente stravaganti. Di recente ha lanciato un suo sondaggio personale su Twitter, chiedendo l’approvazione del pubblico alla mossa di vendere un congruo pacchetto di opzioni azionarie Tesla per pagare le tasse. Il referendum lo ha sostenuto, una maggioranza di utenti ha appoggiato la sua scelta. Musk ha venduto così tante azioni – circa il 10% del suo pacchetto azionario – che il prezzo in Borsa è calato… alleggerendo di colpo il suo carico fiscale visto che si è ridotto il capital gain tassabile. L’operazione coronava anni di polemiche di Musk contro la politica fiscale dei democratici.
È facile considerarlo un banale esempio di oligarca egoista, figlio di un capitalismo viziato da decenni di privilegi fiscali. Ma l’America che adora e sostiene Musk non è solo quella dei suoi pari. C’è una diffusa imprenditorialità in tutte le fasce sociali, che la pandemia ha confermato con prepotenza. Durante la pandemia il numero di micro-imprenditori che danno lavoro a se stessi è aumentato di mezzo milione, arrivando a quota 9,5 milioni (il massimo dalla crisi del 2008). La natalità di nuove imprese è salita del 56% nei primi dieci mesi del 2021, e i due terzi hanno un solo dipendente: il fondatore. È la conferma di un tratto culturale antico, che spiega la vitalità dell’economia americana: un popolo che ha spirito d’intrapresa e vocazione al capitalismo non si scoraggia di fronte alle avversità. Quando le aziende chiudono e licenziano, molti americani anziché aspettare aiuti dallo Stato si rimboccano le maniche e decidono di mettersi in proprio, diventano datori di lavoro di se stessi. Questo popolo di micro-imprenditori è la base sociale che spiega il consenso verso una figura come Musk, e agli applausi che riceve fra i 63 milioni di suoi follower su Twitter, quando polemizza con lo statalismo della sinistra.
Fra la Tesla e la miriade di start-up, c’è un ampio ventaglio intermedio di imprese che «votano con i piedi» e scelgono il Texas invece della California. Un altro esempio importante è la multinazionale sudcoreana Samsung: investe 17 miliardi di dollari per costruire a Taylor (Texas) una nuova fabbrica di semiconduttori. La scelta è strategica e ha implicazioni geopolitiche. I semiconduttori – cervello e memoria di ogni apparecchio elettronico – scarseggiano e questa penuria mette in difficoltà molte aziende che li usano come componenti per i loro prodotti finali, automobili incluse. Il primo produttore mondiale è la Taiwan semiconductor manufacturing, il secondo è Samsung. L’una e l’altra sono «troppo vicine alla Cina», un dato nevralgico in quest’epoca di crescente tensione fra le due superpotenze. Andare a produrre in America vicino a grandi clienti locali è una mossa che viene vista con molto favore dall’Amministrazione Biden.
Ma un tempo la sede naturale per una fabbrica di semiconduttori sarebbe stata la Silicon valley: deve il suo nome proprio al silicio, materiale di base dei micro-chip, in omaggio a un’epoca in cui il leader mondiale era la californiana Intel. Oggi invece i nuovi investimenti per fabbricare semiconduttori sul territorio americani vengono indirizzati in Stati più «leggeri» dal punto di vista delle regolamentazioni e del fisco: il Texas, appunto, o l’Arizona (dove investono i taiwanesi e la stessa Intel). Lo sdegnoso addio di Musk è solo la conferma finale che la California ha perduto molto del suo fascino.
Perché Musk ha voltato le spalle alla California
Il suo non è il gesto isolato di un miliardario polemico, è la punta dell’iceberg di un fenomeno più diffuso in atto da anni
/ 06.12.2021
di Federico Rampini
di Federico Rampini