In difesa della famiglia tradizionale

«Danneggia i valori della famiglia tradizionale e incoraggia il divorzio». Con questa spiegazione, nel marzo 2021, la Turchia di Recep Tayyip Erdogan si è ritirata dalla Convenzione di Istanbul, il primo trattato internazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, scatenando proteste e attirando le critiche della comunità internazionale. Qual era il significato di quel passo indietro deciso dal presidente turco? Ce lo aveva spiegato Valeria Giannotta, direttrice scientifica dell’Osservatorio Turchia del Centro studi di politica internazionale di Roma («Azione» del 29 marzo 2021): «Nel 2011 la Turchia di Erdogan, in quel momento premier, è stata la prima Nazione a firmare la Convenzione di Istanbul. Il panorama politico turco era diverso da quello attuale: l’Akp, il partito di Erdogan, non aveva ancora assunto una posizione predominante e in Parlamento resistevano elementi di forte impronta laicista e kemalista (da Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna, ndr.). Allora il Paese stava implementando una serie di riforme d’impronta liberale, apprezzate dall’Occidente, anche nell’intento di avvicinarsi all’Europa». L’esperta ricordava che già nel 2005 si erano avviate le trattative per l’adesione della Turchia all’Ue, ma si sono arenate in fretta.

Nell’ultima decina d’anni l’Akp si è trasformato. Nato nel 2001 come «partito pigliatutto», riuniva componenti più o meno tradizionaliste e si poneva come movimento di centro-destra al servizio del popolo, con un programma di democrazia conservatrice. «Dal 2011 ha accentuato la sua tensione nazionalistica e la logica autoreferenziale di Erdogan che già all’epoca mirava a un programma presidenziale». Col passare del tempo quest’ultimo e il suo partito hanno assunto posizioni sempre più dominanti nel panorama politico turco, marginalizzando gli avversari.

Si sono poi susseguite diverse crisi: dalle grandi proteste del 2013 contro l’autoritarismo, duramente represse dal Governo, al tentato golpe del 2016. Tutti avvenimenti che hanno reso sempre più evidente il piano accentratore di Erdogan che nel 2014 era diventato presidente. «Ora tutto passa dalla sua persona mentre il legame che prima aveva con la base della società turca si è sfaldato». E, paradossalmente, già con l’avvio del sistema presidenziale l’Akp ha iniziato a perdere consensi. Tanto che in occasione delle elezioni del 2018, per ottenere la maggioranza dei voti in Parlamento, Erdogan ha dovuto stringere alleanze con le componenti più conservatrici della società, portatrici di visioni tradizionali della donna e della famiglia.


Perché la Turchia si mette in mezzo

Quali interessi legano Erdogan a Mosca e Kiev in un momento di difficoltà per il Paese?
/ 03.10.2022
di Romina Borla

Nella valanga di notizie che giungono dal fronte ucraino, qualcuna passa in sordina, come quella dello scambio di prigionieri tra Mosca e Kiev, avvenuto un paio di settimane fa, che ha coinvolto circa 300 persone: ucraini (oltre 200), russi e una decina di combattenti stranieri. Volodymyr Zelensky ha ringraziato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan per avere «facilitato» il raggiungimento dell’intesa. «È dall’inizio della guerra che la Turchia – in virtù dei buoni rapporti che intrattiene sia con Kiev sia con Mosca – si impegna nel ruolo di mediatore tra le parti in conflitto, conseguendo anche un altro successo: la firma di un accordo a luglio, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per sbloccare l’export di grano ucraino attraverso il Mar Nero». A spiegarlo ad «Azione» è Valeria Talbot, co-direttrice del Centro Medio Oriente e Nord Africa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale con sede a Milano.

La Russia – sottolinea l’esperta – è il terzo partner commerciale della Turchia (34,7 miliardi di dollari nel 2021), il suo primo fornitore di gas, coprendo il 33% dell’import del Paese, nonché un’importante fonte di flussi turistici, con oltre il 19% degli arrivi nella penisola anatolica nel 2021. «Ankara ha quindi relazioni molto strette con Mosca, a livello economico ed energetico, e in questi mesi i contatti si sono notevolmente intensificati. Ne sono la prova gli incontri tra Erdogan e Putin: in luglio a Teheran (c’era anche il presidente iraniano Ebrahim Raisi), in agosto a Sochi, alla metà di settembre a Samarcanda (durante il vertice della Shanghai Cooperation Organization)».

Sul piano geopolitico, comunque, non mancano frizioni e tensioni tra i due Paesi: ad esempio entrambi giocano un ruolo importante in contesti come quello siriano e libico, senza dimenticare la questione del Nagorno Karabakh nel Caucaso. «Insomma, si tratta di un rapporto complesso quello con Mosca, una relazione asimmetrica a favore di quest’ultima. Ma la Turchia non ha mancato di mettere dei punti fermi, ad esempio condannando l’invasione russa in sede Onu (2 marzo). Ankara ha infatti anche saldi legami con l’Ucraina, dove Erdogan si è recato a metà agosto per discutere col suo omologo Zelensky. La volontà turca di impegnarsi nella ricostruzione delle infrastrutture del Paese, manifestata in occasione dell’incontro, rinsalda una cooperazione che negli anni si è sviluppata nei settori economico e della difesa (i droni da combattimento Bayraktar che Kiev utilizza nel conflitto contro la Russia sono turchi)».

Inoltre – aggiunge Talbot – è evidente l’interesse della Turchia nei confronti dell’integrità territoriale dell’Ucraina, Paese chiave negli equilibri di potere nella regione del Mar Nero, sorta di «cuscinetto» che assorbe le mire espansionistiche della vicina Russia. Questo spiega anche perché Erdogan si era espresso a favore della restituzione a Kiev della Crimea, la cui annessione a Mosca nel 2014 non è stata riconosciuta dal Governo di Ankara. «Ecco quindi i motivi che hanno portato la Turchia ad assumere il ruolo di mediatore, ruolo che ha riportato il Paese al centro di una fitta rete diplomatica internazionale. Anche i partner occidentali di Ankara, membri della Nato, con cui le relazioni sono altalenanti, hanno apprezzato l’impegno e i risultati conseguiti». Questo – secondo la nostra interlocutrice – si inserisce nel contesto più ampio della ridefinizione della politica estera turca. Dopo anni di politica muscolare e assertiva, adesso Ankara punta sulla normalizzazione dei rapporti diplomatici con i suoi vicini mediorientali, mossa da ragioni di carattere economico oltre che dalla necessità di uscire dall’isolamento regionale in cui si è trovata per lungo tempo.

«La Turchia sta attraversando un periodo di grosse difficoltà. Pensiamo all’inflazione galoppante e al deprezzamento della valuta nazionale. I dati ufficiali dell’Istituto di statistica turco riportano un’inflazione all’80,21% nel mese di agosto, ma l’aumento reale dei prezzi sarebbe molto più alto. Si sta così erodendo il potere di acquisto di molte classi, anche medio basse. Riallacciare ad esempio relazioni commerciali con le monarchie del Golfo non può che dare respiro ad un’economia allo stremo». Il difficile andamento dell’economia, sottolinea Talbot, si traduce in un crescente malcontento popolare che pesa sulla popolarità di Erdogan e del suo partito di orientamento conservatore (Akp), costantemente in calo. Partito che dovrà vedersela con un fronte di opposizione composito alle prossime elezioni previste entro giugno 2023.

Nonostante la continua crescita dell’inflazione, comunque, a metà agosto la Banca centrale turca ha ridotto il tasso di interesse dal 14% al 13%, in linea con la poco convenzionale politica monetaria portata avanti dal presidente. Erdogan è infatti fortemente contrario all’incremento dei tassi ed è al contempo sostenitore di politiche espansive, che nel 2021 hanno fatto registrare una crescita del Pil dell’11%. «Lui punta ad ottenere benefici economici nell’immediato per cercare di tamponare la situazione e il malcontento. In via straordinaria ha anche deciso di procedere a un ulteriore aumento del 30% del salario minimo, portato a 5.500 lire turche (pari a 330 dollari) a partire dal 1° luglio, dopo un primo rialzo del 50% operato lo scorso dicembre. Queste misure però non risolvono i problemi strutturali del Paese».

Intanto nel vicino Iran – da cui arrivano in Turchia consistenti flussi turistici – sta prendendo corpo una decisa protesta che vede in prima fila le donne, dopo l’uccisione di Mahsa Amini (leggi articolo a pagina 25). «Non credo che il movimento possa coinvolgere la Turchia su vasta scala – osserva l’intervistata – ma non escludo che nel Paese continuino le manifestazioni di solidarietà nei confronti delle iraniane. Proteste consistenti, ad Ankara e dintorni, ci sono state l’anno scorso quando la Turchia si è ritirata dalla Convenzione di Istanbul, il primo trattato internazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, poiché – per le autorità – danneggia i valori della famiglia tradizionale». Il modello ideale di donna evocato da Erdogan rimane quello di madre di numerosi figli e angelo del focolare nonostante il Paese si stia evolvendo e un certo processo di emancipazione femminile sia iniziato. Vedremo cosa ci riserverà il futuro. «Potrebbe essere un futuro senza il presidente Erdogan. Sta adesso alla capacità delle opposizioni – un fronte molto eterogeneo, con partiti di estrazione e idee diverse – di attrarre consensi, presentandosi come un’alternativa credibile. Sarà una bella sfida».