Perché è calda la questione del Muro

Stati Uniti-Messico Trump chiede 5,7 miliardi per la sua costruzione e si rifiuta di firmare la legge di bilancio (provocando lo shutdown) se non contiene i fondi per proteggere un confine che giudica un gasdotto per la droga
/ 14.01.2019
di Lucio Caracciolo

Come preannunciato in campagna elettorale, il presidente Donald Trump ha deciso di fare del muro al confine con il Messico il marchio della sua presidenza. E anzi il veicolo della sua rielezione, nel 2020, per la quale ha di fatto avviato la marcia di avvicinamento con il discorso televisivo alla nazione dell’8 gennaio, in cui ha messo la linea dura contro gli immigrati al centro della sua piattaforma politica. Fra l’altro, in questa contingenza il braccio di ferro fra la Camera dei rappresentanti, a maggioranza democratica, e la Casa Bianca del repubblicano Trump verte sul nesso fra shutdown (chiusura provvisoria parziale del governo americano) e accordo per il finanziamento del muro con 5,7 miliardi di dollari, che deve essere approvato dal Congresso, «per fermare –  chiede Trump – criminali, gang, trafficanti di esseri umani che minacciano la sicurezza nazionale». Comunque vada a finire, questo scontro anticipa e surriscalda il clima di pre-campagna elettorale in vista delle presidenziali dell’anno prossimo.

Ma perché la questione del muro è così calda? Conviene ricordare due punti fermi.

Il primo è che la barriera al confine del Rio Grande, descritto da Trump come «un oleodotto delle droghe», in buona parte esiste già e copre circa un terzo del confine Usa-Messico. Se ne cominciarono a costruire i primi elementi già nel 1990, sotto la presidenza di Bush padre. Da allora, sotto le diverse amministrazioni, l’impresa è continuata con maggiore o minore lena. Sotto il nome di «muro» vanno intese non solo costruzioni in cemento armato quanto barriere di varia forma e imponenza, che punteggiano la frontiera. A suo tempo, anche Obama e Hillary Clinton votarono per il Secure Fence Act, che fissava la necessità di mettere in sicurezza la frontiera più calda degli Stati Uniti.

Il secondo, decisivo punto riguarda le ragioni di questa impresa. Esse concernono l’identità e la tenuta sociale del Paese. Quando nel 2004 il politologo Samuel Huntington pubblicò il suo famoso volume Who are we? (Chi siamo?), centrò l’angosciosa questione della minaccia ispanica. Ovvero della penetrazione nel tessuto sociale e persino istituzionale degli Stati Uniti di una minoranza difficilmente assimilabile come quella ispanica. Specie se messicana (i cosiddetti «chicanos»). Costoro venivano trattati, e sono tuttora percepiti da molti americani di ceppo  europeo – bianco/anglosassone/protestante, ovvero wasp, nella dizione classica – come alieni, inconciliabili con l’identità americana consolidata per due secoli e mezzo. In particolare poi considerando che quella frontiera divide il Messico da ampi territori che questo aveva posseduto fino a metà Ottocento, a cominciare dallo strategico Texas: buona parte dei messicani considera ancora oggi quell’annessione un furto geopolitico con scasso. Alcuni s’illudono persino di poterli recuperare.

Alla radice del successo di Trump sta proprio la difesa dell’identità originaria wasp, minacciata dall’immigrazione – trattata come un fenomeno criminale – e dalla mondializzazione. L’attuale inquilino della Casa Bianca si è fatto interprete della rabbia di molti americani di ceto più o meno medio-basso che si sentono deprivati del rango, del primato nel contesto nazionale, della stessa relativa ricchezza, saccheggiata a loro dire dagli immigrati provenienti da sud. E ciò malgrado i flussi sud-nord attraverso il Rio Grande siano in recessione.

Negli ultimi mesi, inasprendo la stretta alla frontiera, sempre più militarizzata, e costringendo migliaia di immigrati in campi decisamente poco adatti all’essere umano, Trump ha confermato che questa resta e sarà sempre più la sua linea. Costi quel che costi. Compreso un eventuale shutdown prolungato, che ha per ora privato degli stipendi circa 800 mila dipendenti pubblici.

La reazione dei democratici è stata verbalmente all’altezza della sfida, e anche i sondaggi cominciano a segnalare una certa insofferenza dell’opinione pubblica per l’atteggiamento di Trump, cui una stretta maggioranza (51%) assegna oggi la principale responsabilità dello shutdown, ma non della sua politica di immigrazione. Di qui a stabilire che le possibilità di rielezione del magnate newyorkese siano in declino, molto ne corre. Anche perché sul fronte democratico si profilano possibili candidati di sinistra dura, difficilmente eleggibili.

Di questo braccio di ferro fanno intanto le spese gli aspiranti immigrati che premono alla frontiera, a determinare una vera e propria emergenza umanitaria.