Per un pugno di naira

In Nigeria negli ultimi quattro mesi sono stati rapiti oltre 600 ragazzi e bambini. Nel mirino la povera gente e si sospetta la complicità delle autorità
/ 08.03.2021
di Pietro Veronese

C’è un Paese al mondo dove il rapimento di ragazze e ragazzi, spesso bambine e bambini, è diventato un fenomeno ricorrente, un fatto della vita. Questo Paese è la Nigeria. Non solo il colosso africano – il più popoloso del Continente – è in cima a questa tragica classifica mondiale, quello che lo caratterizza è che questi sequestri di giovani vite avvengono quasi sempre in massa. Bersaglio dei rapitori non sono le case o le famiglie, bensì le scuole dove i ragazzi sono a convitto. Ogni volta sono centinaia di loro a essere portati via. Non esiste una cifra attendibile che indichi quanti sono ancora nelle mani dei loro sequestratori, ma il totale supera di sicuro le 200 unità. E la stima è largamente approssimata per difetto. I rapiti fino ad oggi sono in totale diverse migliaia. Oltre 600 soltanto negli ultimi quattro mesi.

Le famiglie delle ragazze di Zamfara sono infuriate per l’inerzia dei pubblici poteri e la mancanza di protezione
Quando accadono, questi fatti abietti sono ampiamente riportati dai media, spesso anche quelli internazionali, date le loro inaudite proporzioni. L’ultimo è avvenuto a Zamfara, nel nord-ovest del Paese: 279 ragazze rapite poi liberate. La versione corrente, infinite volte ripetuta, è che gli autori dei rapimenti siano i militanti del movimento islamista Boko Haram, attivo da una ventina d’anni ma trasformato in feroce organizzazione paramilitare da circa dieci.

Tuttavia ricerche recenti, opera di centri studi sia nigeriani che internazionali, tendono a ridimensionare il ruolo di Boko Haram. Anche nel più tristemente celebre di questi sequestri di massa, quello avvenuto a Chibok nell’aprile 2014 – 276 studentesse portate via a mano armata nella notte – l’intervento dei fondamentalisti islamici avvenne solo in un secondo tempo, quando i rapitori, dei criminali comuni, gliele consegnarono non sapendo bene che farne.

Più della strisciante guerra civile e religiosa che infierisce in forma sparsa sull’intero, vastissimo settentrione nigeriano, il primo responsabile di questi rapimenti di massa sembra essere la fiorente industria dei sequestri, una piaga che il Paese conosce da decenni e che la crescente povertà e la diffusa impunità hanno fatto aumentare a dismisura. Come ricorda il «New York Times», di avere una persona cara rapita a scopo di riscatto è accaduto a Ngozi Okonjo-Iweala, recentemente eletta a capo dell’Organizzazione mondiale del commercio (la madre, nel 2012, quando Okonjo-Iweala era ministro delle Finanze); alla più celebre scrittrice nigeriana, Chimamanda Ngozi Adichie (il padre, nel 2015); all’ex presidente Goodluck Jonathan (lo zio, nel 2016). Tutti casi conclusi felicemente con il pagamento di somme notevoli.

Quel che è cambiato, da qualche anno a questa parte, è la tecnica. Invece di prendere di mira i vip, le bande privilegiano ormai i grandi numeri e la povera gente. Scuole e collegi – isolati, quasi del tutto privi di protezione, in contesti regionali già a bassissima sicurezza – sono bersagli che quasi non presentano rischi. Per loro stessa ammissione, le autorità locali o federali finiscono per pagare (la valuta locale è la naira). Perfino il presidente Muhammadu Buhari ha pubblicamente redarguito in un tweet i Governi regionali, invitandoli a «rivedere la loro politica di ricompensare i banditi con denaro e veicoli, che rischia di avere conseguenze disastrose». E in febbraio, all’indomani dell’attacco a una scuola media a Kagara (40 persone rapite), il generale Magashi, ministro della Difesa, si è spinto addirittura ad accusare le vittime di codardia. «A volte i banditi non hanno più di tre proiettili a testa», ha dichiarato. «Ma quando sparano, tutti scappano. Ai miei tempi, davanti a un’aggressione del genere, ci si fermava a combattere».

Molti sospettano le autorità di essere in combutta con i criminali, con cui poi si spartiscono il bottino dei riscatti. Quando di recente a Zamfara è stata organizzata una cerimonia per la riconsegna delle ragazze liberate alle famiglie, la festa è finita in una sparatoria dopo che i genitori, infuriati per l’inerzia dei pubblici poteri e la mancanza di protezione, avevano preso a lanciare sassi contro i funzionari presenti.
Sono passati quasi sette anni da quella notte d’aprile 2014, quando un gruppo di armati fece irruzione in un collegio statale del remoto nord-est nigeriano, portando via quasi 300 studentesse, una cinquantina riuscì a scappare. Da allora il rapimento di Chibok è rimasto il paradigma di questa triste piaga, anche perché divenne subito oggetto di una campagna internazionale, #BringBackOurGirls, cui aderirono l’allora first lady americana Michelle Obama e numerosissime altre celebrità, compreso il Papa.

Su quel fatto sono stati girati documentari e scritti libri, l’ultimo dei quali in uscita in Gran Bretagna, con molte testimonianze dirette delle vittime. L’attualità è legata anche al fatto che oltre cento ragazze mancano ancora all’appello. L’azione militare come detto fu attribuita a Boko Haram ma, a quanto risulta, la milizia islamista entrò in scena solo in un secondo tempo, dopo che i rapitori ebbero deciso di consegnare loro le giovanissime prigioniere. Non che i Boko Haram fossero estranei ad attacchi contro le scuole: era accaduto più volte, spesso con vittime innocenti, perché obiettivo dichiarato del movimento era quello di sottrarre la gioventù all’influenza educativa del Governo per consegnarla all’Islam più retrivo. Ma l’idea di attaccare il collegio di Chibok non era stata loro.

Le ragazze si comportarono con coraggio. Malgrado le minacce, le percosse, la fame, organizzarono azioni di disobbedienza. In maggioranza cristiane, rifiutarono, salvo una trentina, di convertirsi forzatamente all’Islam e di sposare i loro sequestratori. Alcune decine riuscirono a fuggire a rischio della vita. Una di loro, Naomi Adamu, ventenne, usò due quaderni di scuola per tenere un diario, ora pubblicato. È una straordinaria testimonianza di resistenza: «Ero forte perché ero arrabbiata», dice Naomi. «L’ho scritto per ricordare». La sua storia dura ancora.