Morire per Taiwan? L’interrogativo si porrà, se non per gli europei, per una generazione di giovani americani, o almeno per quelli che indossano la divisa? La questione di Taiwan è lontana dalle preoccupazioni prioritarie di oggi. Molti europei non arrivano neppure a immaginarne l’importanza. In America, invece, almeno la Casa bianca e il Pentagono dedicano un’attenzione acuta al dossier.
Quell’isolotto potrebbe diventare il focolaio del prossimo «cigno nero» o «rinoceronte bianco», due immagini metaforiche usate per designare eventi improbabili, imprevisti, e capaci di infliggere shock globali. La prossima crisi a coglierci impreparati sarà una deriva incontrollata verso lo scontro militare fra le due superpotenze? E perché dovrebbe essere proprio Taiwan la scintilla iniziale? Gli interrogativi sul futuro di quell’isola rivelano come stia cambiando il mondo. Evidenziano una crescente asimmetria nelle traiettorie della Cina e degli Stati uniti, in favore della prima. Infine anche sul fragile destino dell’unica «democrazia cinese» – perché questa è la vera originalità di Taiwan – si scopre che l’Occidente non arriva compatto alla sfida, anzi. Crede sempre meno nei propri valori e soffre divisioni interne che aggravano i suoi handicap.
Taiwan è un territorio di soli 24 milioni di abitanti, situato a 120 chilometri dalle coste meridionali della Cina. Ha una superficie di 36 mila chilometri quadrati, cioè meno di una volta e mezza la Sicilia. Eppure il suo prodotto interno lordo ha superato quelli della Svezia, dell’Arabia saudita, innalzandola tra le prime 20 economie mondiali. Se poi guardiamo alla potenza tecnologica, pochi Paesi al mondo possono competere. Non possiamo permetterci di ignorare l’unica democrazia cinese, la sua importanza geopolitica, il groviglio di ambiguità diplomatiche che la circondano.
Per cominciare, ecco una delle tante ragioni per cui si rischia di «morire per Taiwan». Quell’isola così piccola è riuscita in un capolavoro tecnologico e industriale che ci riguarda tutti. Concentra nelle sue aziende e sul suo territorio una porzione dominante della produzione mondiale di semiconduttori: dal 40 al 65 per cento a seconda delle categorie di microchip che includiamo, e fino all’85 per cento nei semiconduttori più avanzati, d’importanza strategica per tutte le altre industrie tecnologiche inclusi gli armamenti. Un microchip onnipresente lo conosciamo e lo maneggiamo tutti: è la scheda del nostro telefonino, dove possiamo vedere i circuiti integrati «stampati» su una specie di foglietto minuscolo e sottile. Quell’oggetto così leggero contiene una memoria prodigiosa. I suoi parenti più evoluti e più potenti pilotano gli aerei, controllano il ciclo delle macchine utensili nelle fabbriche o la sicurezza dei reattori nelle centrali nucleari.
Che cosa può succedere se qualcosa va storto a Taiwan, hanno cominciato a percepirlo nel 2021 tutte le case automobilistiche del mondo, colpite da una penuria di semiconduttori che ha provocato chiusure di fabbriche o tagli e rallentamenti di produzioni a catena. Oggi anche le più banali autovetture sono piene di elettronica e senza i semiconduttori non funzionano. Dall’industria automobilistica la penuria ha allargato i suoi effetti nefasti alla produzione di cellulari e apparecchi elettronici di ogni genere, dall’Asia all’America all’Europa. La Cina accaparra semiconduttori per il timore di quel che può accadere.
In America Joe Biden ha lanciato un piano di politica industriale con 50 miliardi di dollari di aiuti per rafforzare la propria produzione. Ma ci vorranno anni per ridurre la dipendenza di tutti gli altri da Taiwan. Nel 2021 questa crisi ha avuto cause contingenti: le ripercussioni di pandemia e lockdown (boom di acquisti di apparecchi digitali), più una siccità a Taiwan che ha razionato l’acqua ai produttori (la lavorazione del silicio consuma enormi riserve idriche). La Taiwan semiconductor manufacturing company (Tsmc) è il numero uno mondiale nei semiconduttori. Proviamo a immaginare come si trasformerebbe questo scenario, se invece di una semplice penuria – rimediabile con il tempo – ci fosse un’invasione cinese di Taiwan che bloccasse il mercato dell’esportazione. Se si fermano le forniture da Tsmc, ci fermiamo tutti. È una storia incredibile, e anche questa nostra dipendenza strategica da una piccola isola vulnerabile non l’aveva prevista nessuno: donde l’allegoria del cigno nero o del rinoceronte bianco.
I semiconduttori furono uno dei segreti della superiorità americana nell’informatica e in tutta l’economia digitale. Intel, nella Silicon valley, era la regina di questa produzione, circondata da altre concorrenti più piccole e in prevalenza americane. La Silicon valley si chiama così perché i circuiti integrati sono stampati sul silicio. Una delle chiavi per spiegare le ultime rivoluzioni tecnologiche fu individuata nel 1965 nella Legge di Moore che codificava l’aumento esponenziale nella capacità di calcolo dei circuiti integrati, la base dei semiconduttori, le «memorie» o i «neuroni» dei cervelli di ogni apparecchio. Il fatto che un telefonino oggi abbia molta più potenza di calcolo, memoria e intelligenza artificiale di tutti i supercomputer che la Nasa usò per lo sbarco sulla luna nel 1969, è una delle manifestazioni visibili della Legge di Moore: i semiconduttori continuano a diventare da una generazione all’altra sempre più minuscoli e sempre più potenti. Purtroppo non li facciamo noi. Né li fabbrica più la Silicon valley, almeno per adesso la California è relegata a un ruolo secondario.
La geografia di questa tecnologia strategica è cambiata in modo impressionante e quasi con la stessa rapidità con cui agisce la legge di Moore. La taiwanese Tsmc era un attore marginale fino a quando venne «allevata» da Apple: dal 2012 è la sua fornitrice per i microchip degli iPhone. Il numero due tra i suoi clienti, dietro Apple, è Huawei, campione cinese nelle telecomunicazioni. Tsmc in un decennio ha fatto balzi così prodigiosi che oggi i concorrenti americani come Intel le attribuiscono dieci anni di vantaggio su di loro. Bisogna immaginarsi un’azienda così pregiata da essere indispensabile per il futuro tecnologico di americani e cinesi, però situata a pochi minuti di volo per un jet militare di Pechino, a 11 mila chilometri dalla California. Asimmetria. Una corrente di realismo politico dice al presidente Biden che è ora di prenderne atto, rinunciando all’impegno di difendere Taiwan in caso di aggressione. Un’ala dell’Amministrazione Biden vorrebbe fare il contrario, spingendosi fino al riconoscimento diplomatico di Taipei come Stato autonomo. Però contro questi «falchi» che promuovono una linea dura verso Xi Jinping si è levato un coro di allarme. Il 6 maggio 2021 un commentatore del «New York Times» definiva questa linea «irresponsabile», accusando Biden di trascinare il mondo verso la guerra.
Per Taiwan si rischia di morire
L’isola è una delle prime venti economie mondiali e domina la produzione di semiconduttori, di importanza strategica per ogni industria tecnologica. Nelle mire di Cina e Stati uniti, sarà la scintilla che darà inizio alla guerra?
/ 10.05.2021
di Federico Rampini
di Federico Rampini