Dopo sei mesi e mezzo di combattimenti la Russia deve finalmente decidere se sta facendo o no la guerra all’Ucraina. Finora l’approccio dei russi alla campagna in corso è stato contraddittorio e controproducente. Pensato inizialmente come colpo di Stato con accompagnamento militare – partita da risolvere in un paio di settimane – oggi il conflitto sembra completamente fuori controllo. Che cosa è accaduto tra quel fallimento di fine febbraio e la clamorosa sconfitta subita dalle truppe del Cremlino nell’area contesa attorno al Donbas?
Primo. I russi pensavano di combattere contro l’esercito ucraino, considerato di serie C, mentre di fatto si trovano di fronte una coalizione ucraino-anglo-americana, in ordine di impegno. Se Putin avesse considerato il livello effettivo dello scontro sul terreno, probabilmente avrebbe riflettuto molto prima di dare l’ordine di attacco. È chiaro che i recenti successi delle Forze armate ucraine, appoggiate da milizie internazionali e da mercenari, sono dovuti anche al formidabile sostegno di intelligence, di propaganda e di armamenti di punta da parte americana, inglese e di altri atlantici.
Secondo. Non essendo preparato per una campagna di lungo periodo, Putin non ha mandato truppe né sufficienti né adeguatamente armate per la campagna in corso. Oggi combattono per la Russia non tanto truppe regolari di Mosca quanto milizie delle repubbliche del Donbas, la Wagner (organizzazione mercenaria russa), i ceceni di Kadyrov e mercenari sparsi raccolti ovunque possibile.
Terzo. I comandanti locali e coloro che da Mosca dovrebbero impartire le direttive strategiche si sono dimostrati quantomeno inetti. Tanto che Putin si è sentito costretto a licenziarne o a metterne momentaneamente fuori gioco una notevole quantità. A cominciare dallo stesso capo di Stato maggiore generale delle Forze armate russe Valerij Gerasimov, di cui si sono perse le tracce.
Quarto. A fronte di un notevole afflusso di moderni armamenti occidentali, i russi hanno messo in campo un museo dell’Armata Rossa. Carri armati, missili e altri mezzi più aggiornati di cui almeno secondo i cataloghi a disposizione può fruire l’esercito russo, sono tenuti di riserva. Così come le unità di élite che il Cremlino non vuole spendere nella campagna ucraina. In queste settimane, per rimpolpare i ranghi colpiti negli scorsi mesi di guerra Putin sta facendo addestrare nell’Estremo Oriente nuovi reparti da spedire al fronte. Tutto perché non può o non vuole dichiarare la mobilitazione generale, che probabilmente scatenerebbe resistenze e diserzioni.
Ormai è inevitabile per Putin prendere una decisione strategica. O accettare di restare impantanato a tempo indeterminato nella cosiddetta operazione militare speciale o innalzare il livello dello scontro proclamando la guerra patriottica. Questa scelta passerebbe attraverso l’annessione delle repubbliche di Donec’k e Luhans’k e di quant’altro Putin riesca a portare a casa nelle prossime settimane, via referendum più o meno aggiustati da svolgersi a novembre. A quel punto i suoi soldati si troverebbero a combattere non in terra straniera da conquistare, ma in patria. Questo cambierebbe completamente non solo la comunicazione interna ed esterna ma soprattutto il grado di impegno della Russia nella guerra.
È una scommessa ad alto rischio, che finora Putin ha rifiutato di accettare. Ma è forse ancora più rischioso, dal suo punto di vista, accettare la prospettiva di chissà quanti anni di guerra con esiti probabilmente non risolutivi se non disastrosi.
Comunque vada a finire, e non finirà presto, a causa della campagna di Ucraina la Russia ristrutturerà il suo sistema istituzionale. Putin o non Putin dovrà non solo ritracciare i suoi confini, ma riaccentrare i poteri in modo ancora più robusto di quanto non abbia fatto finora. Di qui anche la possibilità che la Federazione Russa si ridenomini Unione Russa. Eco, fra l’altro, del nome del partito del presidente, Russia Unita.