Per il controllo di Taiwan

La tensione intorno al futuro dell’isola tocca punte parossistiche a causa del surriscaldarsi della sfida fra americani e cinesi. Posta in palio: il dominio delle grandi rotte marine e quindi la supremazia mondiale
/ 18.10.2021
di Lucio Caracciolo

Il 12 ottobre la Russia ha dichiarato, per bocca del suo ministro degli Esteri Sergej Lavrov, che considera Taiwan parte della Repubblica popolare cinese. Una mossa che cambia e accentua la sfida in corso fra Pechino e Washington su questa isola strategica, all’incrocio fra Mar cinese meridionale e Mar cinese orientale, chiave dell’accesso agli oceani agognato da Xi Jinping quale segno dello status di «numero uno» globale.
Formalmente Taiwan si chiama Repubblica di Cina. Erede dunque dello Stato fondato nel 1912 sulle ceneri dell’impero Qing. Dopo la sconfitta nella guerra civile contro i comunisti di Mao, il capo nazionalista della Repubblica di Cina, Chiang Kai-shek, si arroccò su quell’isola e sugli arcipelaghi d’intorno, istituendovi una corrotta dittatura. Pechino considera da allora Taiwan (Formosa) una provincia da recuperare al suo diretto controllo. Da Taipei, capitale di Taiwan, la nuova leadership più o meno democratica taiwanese si considera alla guida di uno Stato indipendente. Ma non si dichiara tale, perché violerebbe così il tabù della «Cina unica». Formula diplomatica escogitata da Pechino e Washington per recuperare i loro rapporti ed evitare di tagliare il nodo taiwanese, che li avrebbe inevitabilmente divisi.

Ora però la tensione intorno allo status e al futuro geopolitico di Taiwan ha toccato punte parossistiche, a causa del surriscaldarsi della sfida complessiva fra americani e cinesi. Posta in palio: la supremazia mondiale. Premessa geopolitica del primato, il controllo delle grandi rotte marittime, le arterie attraverso cui passano i nove decimi dei commerci planetari. Di queste rotte, la principale è quella che collega i porti della Cina orientale via stretti indocinesi e indonesiani (Malacca, Lombok) al Medio Oriente, all’Africa e all’Europa, e di qui all’America. Chi controlla Taiwan controlla il punto di Archimede di tale arteria. Nella sua corsa agli oceani, la Cina, potenza continentale, deve passare inevitabilmente per Taiwan. L’America deve altrettanto ineluttabilmente impedire che Pechino se ne impadronisca, per la ragione eguale e contraria. Di qui l’importanza della partita taiwanese, specie da quando Xi Jinping martella che entro il 2049, centenario della fondazione della Cina rossa, Taiwan ha da tornare a casa. Con le buone o con le cattive, leggi manu militari.

Negli ultimi anni e mesi Pechino ha alzato il tono della polemica e ha soprattutto irrobustito le sue Forze armate, a cominciare da Marina e Aeronautica. Gli Stati uniti hanno risposto affermando di fatto, anche se non ancora pubblicamente, di voler difendere l’isola in caso di attacco cinese. Probabile che nei prossimi mesi scopriremo che Washington ha impiantato basi e armamenti di punta a Taiwan. Insieme, gli Usa hanno chiamato a raccolta le principali potenze regionali in difesa del «Libero e aperto Indo-Pacifico». Dove si deve leggere «libero e aperto per noi», da chiudere in caso di conflitto con la Cina. La possibilità di un blocco navale americano, con l’appoggio soprattutto di Giappone, Australia e India, non è così remota. Equivalente di una dichiarazione di guerra. La debolezza maggiore della Cina sta nel suo isolamento. Gli unici due Paesi più o meno alleati nella regione sono il Pakistan e la Corea del nord. Non esattamente prime scelte. Ecco l’importanza della dichiarazione di Lavrov. In codice, significa: in caso di guerra fra Cina e Stati uniti noi siamo con Pechino. Questo appoggio può andare dalla dimensione politico-diplomatica al sostegno militare. Dubitevole che i russi vogliano dissanguarsi per i cinesi, che considerano Paese potenzialmente pericoloso, mirante in prospettiva a penetrare la Siberia e a spezzare la Russia.

Ma per ora la pressione americana su Mosca obbliga Putin a schierarsi con Xi Jinping. E a sostenerlo con importanti flussi energetici, tecnologici, ma anche armamenti di punta. Allo stesso tempo il Pentagono deve considerare nei suoi scenari di guerra l’eventualità di una guerra su due fronti: asiatico-oceanico, contro la Cina; europeo, contro la Russia. Alla domanda se le Forze amate americane siano oggi capaci di sostenere e vincere una doppia campagna contro due potenze della taglia di Cina e Russia, fonti militari di Washington rispondono con un secco monosillabo: «No». Né Washington né Pechino vogliono la guerra. Sarebbe scontro fra colossi dalle conseguenze imprevedibili, comunque devastanti. Ma i conflitti nascono spesso per accidente, o per incidente provocato da una delle parti. Per questo è consigliabile tener d’occhio Taiwan e i suoi mari. Sarà lì che, in ogni caso, si determinerà il vincitore della sfida del secolo.