Pechino ci ricorda che è un regime

Fra i due litiganti – Ecco come la Cina reagisce alla guerra di Trump contro Huawei e Zte
/ 28.01.2019
di Giulia Pompili

Le economie di America e Cina sono indispensabili l’una per l’altra, ha detto il vicepresidente cinese Wang Qishan al recente Forum economico di Davos. La frenata dell’economia del Dragone, che nel 2018 è cresciuto al ritmo più basso sin dagli anni Novanta, preoccupa la comunità internazionale per via delle conseguenze che potrebbe avere sul piano globale. È anche per questo che i colloqui per limitare i danni di una guerra commerciale tra Washington e Pechino si fanno sempre più serrati, mentre tra poche settimane è prevista la scadenza della tregua fissata dal presidente americano Donald Trump e dal presidente cinese Xi Jinping per dare tempo alle prime due potenze globali di trovare un accordo sul deficit commerciale. Il linguaggio in codice della politica, sulle soluzioni vantaggiose per entrambi i Paesi, servono a tranquillizzare i mercati e la diplomazia, ma tutto ciò che sta accadendo intorno a quegli interessi economici, tra prove di forza e provocazioni, rende la questione dello scontro tra Occidente e Oriente, tra America e Cina, ben più di una guerra commerciale.

Al centro di tutto c’è ancora la questione Huawei. L’America infatti vuole andare avanti con la richiesta di estradizione di Meng Wanzhou, direttrice finanziaria del colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei nonché figlia del fondatore Ren Zhengfei, arrestata in Canada su richiesta del Dipartimento di Giustizia di Washington il primo dicembre scorso mentre effettuava uno scalo tecnico a Vancouver. Pechino ha condannato il fermo di una delle donne più potenti dell’economia cinese accusando Washington, colpevole di usare la giustizia «per colpire politicamente» Huawei. Da anni infatti le due principali aziende cinesi per le comunicazioni, Huawei e Zte, sono sotto la lente d’ingrandimento dei funzionari americani per violazione delle sanzioni economiche contro i cosiddetti Stati canaglia – ed è infatti questa l’accusa principale contro Meng Wanzhou, che secondo il Dipartimento di Giustizia avrebbe venduto all’Iran gli stessi componenti che ha venduto anche all’America.

L’altro filone d’indagine riguarda invece lo spionaggio: gli Stati che fanno parte del consorzio d’intelligence Five Eye (America, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna) già da molto tempo temono che le due aziende siano fin troppo legate al governo centrale di Pechino, e questa è una potenziale minaccia per tutti quei paesi che decidono di adottare sistemi Huawei e Zte. Parliamo dell’infrastruttura del futuro: il 5G. L’ultimo caso è avvenuto il mese scorso in Polonia: un funzionario di Huawei è stato arrestato dalle autorità polacche per spionaggio. Lui si è dichiarato innocente, ma mentre a Varsavia vanno avanti le indagini, in diversi paesi europei il suo fermo ha riportato l’attenzione sul problema dello spionaggio cinese, e l’opportunità di adottare misure per limitare l’accesso di Huawei nei rispettivi mercati. 

Questa settimana la richiesta di estradizione di Meng Wanzhou dovrebbe essere formalizzata. Fino a oggi il Canada, che ha eseguito l’arresto su richiesta degli Stati Uniti, è stato l’unico paese ad aver subìto la rappresaglia da parte della Cina. È una strategia usata spesso da Pechino: colpire l’alleato per non colpire direttamente l’America. Il mese scorso Michael Kovrig e Michael Spavor, due cittadini canadesi che si trovavano in Cina, sono stati arrestati perché considerati «un pericolo per la sicurezza nazionale». Kovrig è un accademico e diplomatico in aspettativa, mentre Spavor è un nome noto nell’ambiente degli analisti nordcoreani perché da sempre cura i rapporti ufficiali e di commercio tra Cina e Corea del nord. 

In un primo momento, il governo del primo ministro Justin Trudeau aveva scelto la linea della cautela, ma quando i rapporti con Pechino si sono ulteriormente deteriorati anche a Ottawa è montato il sentimento anticinese. Qualche giorno fa una lettera firmata da cento autorevoli accademici e diplomatici è finita sui media internazionali: la società civile, nell’appello, chiede la liberazione di Kovrig e Spavor, che nel frattempo sono diventati il simbolo di un metodo ormai consolidato a Pechino, e dimostrano che la comunità accademica e culturale internazionale ha sempre più difficoltà a fidarsi della Cina. Il Canada ha emesso un avviso per i canadesi che si trovino a viaggiare nel Paese parlando di «detenzioni arbitrarie».

Il problema, ha spiegato qualche giorno fa John McCallum, ambasciatore canadese in Cina, è che sul caso Meng Wanzhou sia Pechino sia Washington hanno usato la giustizia per fare politica e dare prove di forza. A metà dicembre perfino Trump disse via Twitter che se fosse stato necessario sarebbe intervenuto con il Dipartimento di Giustizia per sistemare le cose con la Cina. Ciò nonostante, a Ottawa vari analisti hanno notato le dichiarazioni poco convinte degli Stati Uniti nel supportare le richieste di liberazione di Michael Kovrig e Michael Spavor.

L’Australia, che già da anni si trova spesso al centro delle controversie tra Cina e America (per via della posizione geografica e degli interessi economici) è l’ultima ad aver subìto l’ennesima provocazione cinese: Yang Hengjun, ex diplomatico cinese e da anni cittadino australiano, accademico che vive a New York e scrittore molto noto anche in Cina, è sparito dalla circolazione. Si stava recando per qualche giorno a Pechino per motivi familiari, e lì è stato arrestato, ha fatto sapere il ministero degli Esteri australiano. Secondo Pechino, il cinquantatreenne Yang Hengjun sarebbe «coinvolto in attività criminali contro la sicurezza nazionale». Sempre più spesso si sente parlare di «diplomazia degli ostaggi» da parte della Cina: un modo per alzare la pressione e ottenere un risultato senza praticamente nemmeno dover negoziare.