La Cina sta soffrendo. La sfida con gli Stati Uniti d’America ne mette in evidenza i limiti strutturali. Dopo quasi mezzo secolo di crescita vertiginosa dell’economia, con tassi annui dichiarati intorno al 9-10%, quest’anno il pil aumenterà al massimo del 6%. Ma sono cifre ufficiali. Gli esperti stranieri più ottimisti calcolano un +4,5%, i più severi addirittura indicano l’1,5-2%. Se poi consideriamo che la crescita del prodotto interno lordo è sempre dipesa e continua a dipendere per una parte sostanziale dagli investimenti pubblici nelle infrastrutture – in sostanza: il governo decide di quanto far salire il pil – si capisce perché la Repubblica Popolare sia entrata, com’era inevitabile, in una fase di (molto relativa) riduzione dello slancio che ha portato un Paese di un miliardo e 400 milioni di abitanti ad avvicinare il volume dell’economia statunitense. Preparando e preannunciando il sorpasso.
Fra le cause del rallentamento della crescita, la guerra commerciale con gli Stati Uniti. Dazi, sanzioni, interdizioni che colpiscono seriamente l’Impero del Centro, nel contesto di una secca riduzione della crescita globale che per alcuni potrebbe preludere a un’altra recessione. In America e non solo.
Fra le ragioni che hanno portato il presidente Xi Jinping a lanciare nel 2013 il progetto delle «nuove vie della seta» («Una cintura una via», nella dizione ufficiale), spicca la volontà di ridurre il dislivello fra le ricche e moderne Cine dell’Est affacciate sull’Oceano e quelle, assai meno sviluppate, dell’Ovest. Dopo lo slancio dei primi anni, sembra che questa iniziativa, che intendeva aprire nuovi mercati alla Cina e smaltire una quota della sovrapproduzione di acciaio e di altri materiali e merci prodotte in eccesso, stia subendo qualche contraccolpo. Non solo per la reazione americana o per il crescente timore di alcuni paesi, fra cui l’Italia, di aprire le porte non solo ai commerci ma anche all’influenza politica e alle strutture dell’intelligence cinese. È dentro la Cina che si manifestano resistenze impreviste quanto corpose.
Le obiezioni interne sono di diverso ordine. La prima è che, contrariamente alle intenzioni di Xi Jinping, finora gli investimenti nel grandioso progetto non stanno beneficiando le aree più povere e instabili del Paese, ma quelle già privilegiate. C’è un forte dislivello strutturale fra le merci che vanno e vengono dai colossali porti della Repubblica Popolare (sette dei dieci più grandi al mondo sono infatti cinesi) e quelle che possono essere trasportate lungo le rotte terrestri, stradali o ferroviarie. Ma la geografia è implacabile: le regioni interne oggetto dell’attenzione «delle nuove vie della seta» non dispongono dell’affaccio sul mare. Se lo debbono semmai guadagnare con percorsi difficili e strategicamente delicati, quali il corridoio sino-pakistano, che sbocca sul porto di Gwadar, ancora in via di completamento.
La piattaforma terrestre del progetto cui Xi Jinping ha affidato una parte rilevante del suo futuro politico è il Xinjiang. Regione autonoma del Nord-Ovest, enorme quanto instabile. Qui vive un’irrequieta popolazione uigura, di lingua turchesca e religione musulmana, non perfettamente assimilata da Pechino, malgrado i «campi di rieducazione» e gli investimenti infrastrutturali. Ma quello che per Ankara si chiama Turkestan Orientale non decolla. Le rotte ferroviarie via Asia centrale o Russia sono insufficienti, e anche quando raggiungessero il pieno regime non potrebbero tenere il passo con i grandi porti del Sud-Est, finestre della Cina sul mondo (caso Hong Kong a parte).
C’è poi la tendenza dei governi regionali a muoversi per conto loro, senza troppo seguire le indicazioni del centro. In un sistema così accentrato come quello di Pechino, con Xi Jinping nucleo non solo simbolico del potere, questo significa accentuare le inevitabili partite politiche fra potentati e feudatari domestici.
Infine, in questo clima piuttosto depressivo e incerto, il segretario generale/presidente ha dovuto accantonare i suoi progetti di privatizzazione di alcune delle più importanti imprese di Stato, conglomerati di potere politico ed economico in mano alla nomenclatura più corrotta. Non è proprio il momento, questo, per un braccio di ferro di dimensioni colossali fra gruppi di potere, che metterebbe a dura prova i delicati equilibri interni al sistema cinese.
Il rallentamento dell’economia ha immediate ripercussioni sociali e politiche. La legittimazione del potere del Partito comunista non verte certo sui princìpi ideologici che ancora professa, in nome di un «socialismo dalle caratteristiche cinesi». Si fonda semmai sulla capacità del sistema di salvare dalla povertà – fino agli anni Cinquanta del Novecento dalla morte per fame – milioni e milioni di compatrioti. E di aprire le porte del benessere e di un certo grado di consumi alle classi medie. L’andamento del ciclo economico incide dunque sulla stabilità del potere politico. In questo clima di sfida con gli Stati Uniti e di fragilità geopolitiche interne, esposte dalla guerriglia urbana a Hong Kong, nessuno fra i potenti di Pechino dorme sonni tranquilli. Tantomeno Xi.