«Patriottismo, non burocrazia»

La dottrina Trump all’Onu – Il rilancio del nazionalismo è a 360 gradi con l’attacco alla globalizzazione, ai trattati di libero scambio e le loro promesse fallite. Un discorso, quello del presidente, nel quale ha sempre tenuto alta la bandiera degli Stati Uniti
/ 25.09.2017
di Federico Rampini

Il newyorchese medio considera l’Onu come una «disgrazia necessaria». Una volta l’anno – in occasione dell’assemblea generale che raduna i potenti della terra – l’Onu rende il traffico di Manhattan ancora più impossibile del solito. Però fa anche della Grande Mela la vera capitale globale, con uno sberleffo a Washington. E poi, come ha detto Donald Trump, tutto questo viavai di leader e diplomatici fa bene agli affari (lui ha costruito e venduto una Trump World Tower a pochi isolati dal Palazzo di Vetro). Ma quest’anno si respirava nell’aria qualcosa di diverso. Era la prima volta di Trump alle Nazioni Unite. Un colpo di grazia, per un’istituzione già ampiamente screditata e sfiduciata da tanta parte dell’opinione pubblica mondiale?

Alla fine il bilancio concreto del summit – come tutti gli anni – è modesto. Le decisioni reali le ha prese l’America da sola, come l’ennesimo ed ulteriore inasprimento delle sanzioni economiche alla Corea del Nord; e continuerà a prenderle l’America da sola, come l’eventuale disdetta dell’accordo nucleare iraniano su cui Trump deve comunicare una decisione al suo Congresso entro il 15 ottobre.

L’attenzione immediata durante l’assemblea generale si è concentrata sulla minaccia di «distruzione totale» della Corea del Nord, e gli altri attacchi duri contro Iran e Venezuela. Ma il primo discorso di Trump all’Onu è stato molto più di questo. È un vero manifesto ideologico, quello che il presidente americano ha proposto a tutti i nazionalpopulismi del nostro tempo. Nel Palazzo di Vetro è risuonata per la prima volta una Dottrina Trump organica, in larga parte confezionata dall’unico ideologo di estrema destra (Stephen Miller) che i generali hanno voluto lasciargli a fianco alla Casa Bianca. (L’altro, Stephen Bannon, era stato cacciato dal generale Kelly appena nominato chief of staff).

L’appello di Trump ai leader mondiali invoca un «risveglio delle nazioni», usando quel termine («reawakening») che in America fu storicamente associato a fenomeni di riscoperta di massa di un intenso fervore religioso. La salvezza del mondo nella sua visione dipende da un revival del patriottismo, «non da burocrazie distanti». È un mondo di «nazioni orgogliose», fiere di difendere i propri cittadini, quello che può restituirci sicurezza. Come presidente degli Stati Uniti lui rivendica il diritto di «mettere l’America al primo posto (America First), proprio come gli altri leader fanno e dovranno sempre fare per i propri paesi». Il rilancio del nazionalismo è a 360 gradi. C’è l’attacco alla globalizzazione, ai «trattati di libero scambio con le loro promesse fallite, milioni di posti di lavoro distrutti, mentre altri violavano le regole». Alla middle class e ai lavoratori americani lui ribadisce la promessa fondamentale della sua campagna elettorale: «Non sarete mai più i dimenticati». C’è anche una linea Trump sui profughi, che risuonerà in molti paesi europei alle prese con questo nodo: «Per il costo di accoglienza di un rifugiato qui negli Stati Uniti, possiamo salvarne dieci a casa loro. Questo sì, è umanitario».

La riscoperta di un culto della nazione, viene estesa fino ad abbracciare l’atto fondatore dell’Onu. Nel suo discorso Trump si appropria dell’invenzione di Franklin Roosevelt e ne dà la sua versione: alle origini delle Nazioni Unite c’è la vittoria contro i nazifascismi nel 1945, ma gli eroi che offrirono il sacrificio della vita nella Seconda guerra mondiale, «combattevano per difendere le nazioni che amavano».

In questa visione c’è posto per l’Onu solo se «realizza finalmente il suo enorme potenziale». Cioè se sarà efficace nel contrastare e neutralizzare gli Stati-canaglia come la Corea del Nord e l’Iran. Trump è disposto a concedere un ruolo alle istituzioni multilaterali se il risultato vale l’investimento, se il tornaconto per i singoli paesi membri in termini di sicurezza è proporzionale alla spesa.

Le contraddizioni abbondano, fra questa Dottrina Trump nei suoi principi generali, e la sua applicazione ai casi concreti. La sua condanna dell’accordo nucleare con l’Iran firmato da Barack Obama è inspiegabile, alla luce della crisi nordcoreana: quanto darebbero oggi gli americani per firmare un’intesa simile con Kim Jong-un, che ne arresti almeno per dieci anni il programma nucleare? Inchiodare alle loro responsabilità quei paesi che sostengono il terrorismo islamista, senza un accenno di critica all’Arabia saudita, riproduce le eterne contraddizioni della realpolitik americana, sempre indulgente quando è un alleato strategico a calpestare i diritti umani o a foraggiare madrasse fondamentaliste.

Al netto delle troppe incoerenze, resta però quel messaggio di fondo. Che non è banale, nella sua trasparenza estrema. La Dottrina Trump esplicita quel che pensano tanti cittadini delle liberaldemocrazie delusi dalla globalizzazione, spaventati dai flussi migratori: non saranno le tecnocrazie sovranazionali a proteggerci, visto che «questo mondo» lo hanno disegnato proprio loro. La Dottrina Trump è anche sorprendentemente vicina alla teoria e alla pratica seguita da sempre da tanti leader delle potenze emergenti. La Cina, la Russia, la Turchia e ora perfino l’India dell’ultranazionalista Narendra Modi, non hanno mai veramente creduto di aderire all’Onu per realizzare la difesa della Dichiarazione universale dei diritti umani. L’idea che esistano valori sacri sotto ogni latitudine, diritti degni di tutela a prescindere dai regimi politici o dalle fedi religiose, è stata spesso denunciata dalle classi dirigenti di quei paesi come una nuova forma d’imperialismo occidentale.

In questo senso Trump è molto «contemporaneo» ed è più simile ai leader delle potenze emergenti di quanto lo fossero Obama, i suoi ispiratori Franklin Roosevelt e Woodrow Wilson. Tra i padri fondatori dell’Onu, alcuni sognarono un mondo dove fosse possibile il superamento dei nazionalismi, additati come le cause di due conflitti mondiali. Trump, in questo identico a Xi Jinping e Putin, considera la legalità internazionale e le sue istituzioni come uno strumento da usare o da aggirare, a seconda delle convenienze, dei benefici che se ne possono ricavare. L’indignazione per il tono nazionalista del discorso di Trump è in parte ipocrita. L’aula grande del Palazzo di Vetro risuona di discorsi nazionalisti da quando venne inaugurata. Molti l’hanno usata solo come una tribuna e un amplificatore. L’impotenza dell’Onu di fronte alle tragedie – guerre, guerre civili, carestie ed epidemie – è diventata un luogo comune. Trump in questo caso non è originale, ha solo la sfacciataggine di dire ciò che molti pensano. Naturalmente non è sulla faccia tosta che si costruisce una leadership; né tantomeno è su queste basi che può essere rilanciata una leadership americana già parecchio malconcia.