C’è qualcosa di diverso nel brutale attacco che ha subìto lo Sri Lanka nel giorno di Pasqua. Diverso dal lungo elenco degli altri attentati terroristici perpetrati sull’isola dell’Oceano Indiano nel suo tormentato passato, fatto di estremismi religiosi e conflitti etnici. Non si tratta più di semplice terrorismo interno, come hanno spiegato già dalle prime ore dopo la tragedia le autorità di Colombo, ma di un salto di qualità, perché i gruppi locali avrebbero avuto appoggio e aiuto, probabilmente anche finanziario, dall’estero: «Senza un network internazionale questi attentati non ci sarebbero stati». Otto esplosioni, un attacco coordinato in tre diverse città per colpire obiettivi strategici: chiese cattoliche e hotel di lusso. Il bilancio è di 253 morti e più di 500 feriti, tra cittadini srilankesi e turisti stranieri.
L’esplosione più sanguinosa è quella avvenuta nella chiesa di San Sebastiano di Negombo, una città a una trentina di chilometri di distanza dalla capitale Colombo. Un luogo dall’alto valore simbolico: Negombo è da sempre soprannominata la «little Rome», la piccola Roma, una delle poche città dello Sri Lanka a maggioranza cattolica, piena di chiese e di fedeli. Nel corso delle ore successive alle esplosioni, tutte eseguite da attentatori suicidi, le autorità hanno arrestato almeno quaranta persone – tutti cittadini srilankesi. Poi hanno cercato di disinnescare un’ultima bomba che è esplosa accidentalmente e ha ferito altre persone, e hanno trovato quasi novanta detonatori nascosti nella stazione dei pullman di Colombo. I numeri danno l’idea di quanto fosse esteso e quanto volesse essere sanguinoso l’attacco. Le prime investigazioni dell’intelligence hanno portato a un responsabile: il gruppo jihadista National Thowheeth Jamath, che prima di domenica scorsa non era un nome noto nella galassia islamista.
Perfino in Sri Lanka in pochi erano a conoscenza della sua esistenza, anche perché le azioni terroristiche di quel gruppo, fino a quel momento, si erano limitate all’iconoclastia e al vandalismo contro la maggioranza buddista del Paese. Insomma, un gruppo così piccolo e poco organizzato non avrebbe mai potuto portare a termine un attentato come quello di Pasqua senza un coordinamento esterno, strutturato, e in grado di insegnare come confezionare bombe e addestrare islamisti suicidi. E infatti quattro giorni dopo è arrivata la rivendicazione dello Stato islamico: Amaq, cioè quella che viene considerata una sorta di agenzia di stampa del gruppo terroristico più temuto del mondo, ha diffuso due fotografie di nove persone che giurano fedeltà al Califfato islamico e al suo leader, Abu Bakr al-Baghdadi.
Nel comunicato quelle nove persone, tra cui una donna, vengono indicate come i destinati al martirio, coloro che hanno portato a termine gli attentati in Sri Lanka contro cristiani e turisti. Fra i nove attentatori suicidi, tra loro gli investigatori hanno riconosciuto Mohammed Zaharan, il predicatore leader del National Thowheeth Jamath (l’unico a volto scoperto). Secondo il «New York Times», il fatto che Zaharan sia riuscito a portare a termine un attacco così esteso e coordinato dimostra l’accesso di un gruppo islamista così piccolo e locale nella enorme rete dello Stato islamico, che nonostante le sconfitte subìte sul campo in Siria riesce ancora a reclutare a livello internazionale. È anche per questo che l’Fbi, l’Interpol e le agenzie di intelligence di tutti i paesi coinvolti hanno fatto ingresso ufficiale nelle indagini a Colombo.
Perché il problema, in Sri Lanka, è adesso cercare di venire fuori da una tragedia di queste dimensioni: c’è la paura di nuovi attacchi, ma c’è soprattutto un Paese fragile, politicamente e socialmente, che fino al 2009 ha combattutto una guerra civile sanguinosa che, come spesso accade nel sud-est asiatico, è fatta di conflitti etnici e religiosi. In Sri Lanka, su 21 milioni di abitanti, solo il 9,7 per cento della popolazione è musulmana, mentre la religione di Stato è il buddismo, praticato dal 70,2 per cento della popolazione.
La minoranza più numerosa è quella induista, che rappresenta il 12,6 per cento degli srilankesi, e l’induismo è praticato dai tamil, il gruppo etnico separatista del nord-est dell’isola che dopo trent’anni di guerra fu sconfitto solo dieci anni fa. Negli ultimi cinque anni il governo di Colombo era riuscito a venir fuori dalla crisi: era arrivata la Cina, l’ingombrante potenza asiatica che tramite un mastodontico prestito, impossibile da ripagare per la piccola isola, alla fine si era presa il porto di Hambantota. Ma da sempre lo Sri Lanka subisce anche l’influenza strategica del grande vicino, l’India, e non a caso è questo uno dei luoghi in cui i giochi di forza tra Pechino e New Delhi si fanno sempre più complicati.
Negli ultimi cinque anni il governo di Colombo, in particolare, aveva puntato tutto sul turismo, considerato un settore chiave per la crescita. Nuovi hotel, sempre più lussuosi, stavano aprendo in tutta l’isola: lo Shangri La, uno degli obiettivi dei terroristi nel giorno di Pasqua, era stato inaugurato soltanto due anni fa. L’anno prima nella capitale Colombo aveva aperto il Mövenpick, e pochi mesi fa il Ritz Carlton – tutti hotel da cinque stelle, a dimostrazione del fatto che lo Sri Lanka poteva attrarre un tipo di turismo ricco in grado di generare un indotto economico notevole. Gli attacchi agli hotel frequentati da stranieri ricordano quelli avvenuti a Bali, in Indonesia, nel 2002 (202 morti) e nel 2005 (23 morti). Dopo quelle due tragedie avvenute nell’isola indonesiana più turistica, il governo di Giacarta si trasformò in un modello di antiterrorismo, e anche oggi Bali è una specie di compound controllatissimo. Molti osservatori, però, dubitano che lo Sri Lanka abbia la forza di usare il modello indonesiano. Anche perché la situazione politica, anche oggi, è molto complicata.
In una delle prime conferenze stampa dopo la tragedia, il primo ministro dello Sri Lanka, Ranil Wickremesinghe, ha ammesso la responsabilità delle forze di sicurezza nell’aver ignorato avvertimenti arrivati qualche settimana prima dall’intelligence internazionale e dall’India poche ore prima. In un’intervista alla NDTV, emittente indiana (non a caso: Wickremesinghe è più vicino a New Delhi che a Pechino), il primo ministro ha accusato le Forze dell’ordine di non essere state in grado di prendere precauzioni e di rafforzare la sicurezza nel giorno di Pasqua nonostante gli avvertimenti. È un messaggio per il presidente Maithripala Sirisena, da cui dipendono le Forze armate.
Ma per capire meglio bisogna tornare alla fine dello scorso anno, quando si aprì una gravissima crisi costituzionale nello Sri Lanka. La lotta di potere tra i due aveva portato il presidente Sirisena, a fine ottobre 2018, a rimuovere il primo ministro Wickremesinghe – capo del governo di Colombo dal 2015 – e a sostituirlo con l’ex primo presidente Mahinda Rajapaksa. Dopo due mesi di «esilio forzato» Wickremesinghe era tornato, ma da allora la frattura tra le due più alte cariche dello Stato non si è mai risolta. Molte delle polemiche dopo gli attentati di Pasqua riguardano proprio la crisi politica: il presidente Sirisena ha detto che non era stato informato del pericolo di attacchi islamisti, ma i suoi oppositori sostengono che al primo ministro non era mai stato dato l’accesso alle riunioni per la sicurezza. Una lotta di potere che ha reso ancora più fragile l’apparato di intelligence del Paese. Il presidente ha annunciato che prenderà provvedimenti, e probabilmente la catena di comando della Difesa sarà sostituita. Forse non basterà.