«Partirei anche su un ombrello rovesciato»

La crisi spinge sempre più tunisini a migrare attraverso la rotta del Mediterraneo. Aumentano morti e dispersi in mare
/ 16.01.2023
di Francesca Mannocchi

Ali Zarroug cammina sul lungomare di Zarzis, in Tunisia, si guarda intorno e sospira. «Fino a qualche anno fa – dice – la città, di venerdì, appena dopo la preghiera del pomeriggio sarebbe stata piena di gente, piena soprattutto di giovani come me». Invece ora non c’è quasi più nessuno. Ci sono le donne, ci sono i bambini, ci sono gli anziani. Ma i giovani se ne vanno, scappano dalla crisi economica, scappano anche da quella politica. Così Ali cammina, si guarda intorno e guarda il mare: «Niente potrà fermare i miei sogni e il mio sogno è andare via, raggiungere l’Europa, come stanno facendo i miei coetanei». Lui ha provato due volte a chiedere un visto per andare in Francia e non ha ottenuto risposta. Ha tentato anche di partire con un gommone ed è stato riportato indietro dalla guardia costiera tunisina e processato. Quando è arrivato davanti alla giudice le ha detto: «Sono così intenzionato a partire che se potessi farlo sull’ombrello che ha lì, accanto alla sua scrivania, lo farei. Proverei ad attraversare il Mediterraneo su un ombrello rovesciato, pur di lasciare il Paese». Poi è stato sanzionato con una multa che ha pagato, è uscito dal tribunale e ha ricominciato a cercare lavoro, nella sua città, Zarzis, dove il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge il 30%.

Nel Paese, secondo l’Istituto nazionale di statistica tunisino (INS), il tasso di disoccupazione per gli under 25 è superiore al 37% e la soluzione non sembra avere un orizzonte di miglioramento, secondo Anis Morai, giornalista economico e presentatore del programma «El Business» sull’emittente Diwan FM, una delle più grandi stazioni radio tunisine. «Il settore privato ha la capacità di assorbire tra gli 80mila e i 100mila dipendenti, per lo più occupati nell’industria tessile, nell’industria della pelle e nella produzione di scarpe. Al contrario, abbiamo circa 280mila studenti con un diploma di istruzione superiore che proprio non riescono a trovare un lavoro». Uno scenario in via di peggioramento da cui non scappa solo chi è disoccupato; cominciano a migrare anche migliaia di professionisti. Sarebbero 30mila gli ingegneri che hanno lasciato la Tunisia per non farvi ritorno negli ultimi otto anni e 4mila medici.

Quando Ali Zarroug lavora viene pagato 600/700 dinari al mese, più o meno 200/250 franchi, ne dà 400 alla sua famiglia per le spese di tutti i giorni, e per le necessità mediche di sua madre e gliene restano poco più di 200, circa 80 franchi. Troppo poco per vivere e per programmare un futuro. A 28 anni si sente così demotivato che ha lasciato anche la giovane ragazza con cui aveva stretto un fidanzamento, era diventato per lui troppo umiliante non poter immaginare di sposarla. Così il progetto è tornato ad essere quello della fuga, nel solo modo concesso a chi di fronte alla richiesta di vie legali per migrare continua a trovare le porte chiuse. La storia di Ali è una storia di ordinaria migrazione e la storia di Zarzis è una storia di drammi quotidiani. È da città come questa della Tunisia, quasi al confine con la Libia, che parte la maggior parte delle imbarcazioni che raggiunge le coste italiane, nello specifico Lampedusa. Sono quelli che le istituzioni descrivono come «barchini fantasma», piccole barche o gommoni che trasportano dalle venti alle cinquanta persone, sempre più auto-organizzate. Significa che nei quartieri si muove un gruppo di persone che autonomamente mette da parte i risparmi per acquistare un «barchino», un satellitare e del carburante, fa riferimento a un trafficante noto in zona che indirizza il gruppo – dietro pagamento – verso le spiagge dove è più conveniente partire senza rischiare di essere catturati dalle guardie costiere. Così si parte in quella che è ormai una migrazione come «progetto familiare».

Si investe su un membro del nucleo affinché cerchi fortuna altrove, perché in Tunisia – pensano tutti qui – non c’è più niente da fare. A fronte di un peggioramento costante della situazione economico-politica, i numeri delle partenze aumentano di circa il 20% ogni anno da tempo, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e, secondo i dati del Ministero dell’interno italiano, la nazionalità tunisina è la seconda nel conteggio complessivo degli arrivi, dopo gli egiziani. E purtroppo, quanto più aumentano le partenze dai Paesi nordafricani, tanto più crescono morti e dispersi in quella che è da tempo la rotta migratoria più pericolosa del mondo.

Secondo il Forum dei diritti sociali tunisini, un’organizzazione che si occupa di monitorare il rispetto dei diritti civili nel Paese, nel 2022 sarebbero stati più di 500 i cittadini tunisini partiti e mai arrivati a destinazione. Tante sono vittime che escono da ogni statistica, spesso senza nome. I dispersi del mare. Il 21 settembre è la data dell’ultima strage da queste coste, un’imbarcazione con 18 persone ha lasciato Zarzis senza mai arrivare a destinazione. Da allora sono stati recuperati 8 corpi e 10 mancano ancora all’appello. Tra i corpi recuperati quello di una giovane madre, manca però quello di sua figlia di un anno e mezzo. Di fronte alle richieste di aiuto delle famiglie dei dispersi, le istituzioni hanno dimostrato scarso sostegno; a mostrare solidarietà e iniziare vere ricerche è stata l’Associazione dei pescatori che ha effettuato quattro operazioni autonome in mare.

Dopo settimane le famiglie hanno scoperto che i corpi che erano stati portati a riva dalle onde erano stati destinati, senza che nessuno effettuasse un test del DNA e li identificasse, al cimitero degli ignoti, un pezzo di terra dove da dieci anni a Zarzis vengono seppelliti giovani uomini, donne e bambini soprattutto di origine subsahariana, vittime del mare. Dopo averlo scoperto, le famiglie dei giovani tunisini hanno portato in piazza la loro rabbia. Vogliono risposte, vogliono i corpi dei loro figli e delle loro figlie, vogliono un posto dove poterli piangere e vogliono, soprattutto, capire se qualcosa è andato storto. Per questo da settimane scendono in strada chiedendo verità e giustizia, e per questo da tre mesi nella piazza di Zarzis, di fronte alla sede del municipio, c’è un presidio permanente con le foto di chi è partito senza mai arrivare e senza mai fare ritorno a casa.

Le organizzazioni che si occupano di monitorare le politiche migratorie europee in Nordafrica, come l’italiana ASGI, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, sono vicini alle famiglie delle vittime del mare e hanno scritto un comunicato per sottolineare che la tragedia di Zarzis del 2022 non è solo un caso. «In questa geografia razzializzata dell’Europa contemporanea – scrivono – sempre più persone perdono la vita. Il numero di vittime e persone scomparse sulle coste tunisine nel 2022 è di 544. Recentemente sono stati recuperati altri corpi in mare, in seguito al naufragio di Teboulba. Queste tragedie mettono in evidenza la matrice securitaria dei meccanismi di controllo delle frontiere, del regime dei visti e il valore subordinato che viene dato alle vite umane».

La parola «securitario» fa riferimento alle strategie messe in atto dall’Europa negli ultimi anni, cioè una protezione militarizzata dei confini sud del Mediterraneo. L’Unione Europea, infatti, ha progressivamente aumentato il proprio impegno economico e diplomatico per l’esternalizzazione dei confini, è quello che continua ad emergenze anche nel piano d’azione per il Mediterraneo centrale pubblicato a novembre scorso dalla Commissione europea con lo scopo di «porre rimedio ai problemi attuali immediati riguardanti la rotta migratoria del Mediterraneo centrale».

Il documento conferma le strategie che dal 2015 – anno dell’Agenda europea su migrazione e asilo, rafforzate dal Patto migrazione e asilo del 2020 – modulano i rapporti tra Europa e Nordafrica: il rafforzamento delle frontiere dentro e fuori l’Europa, le espulsioni e i rimpatri; viene cioè di fatto confermato un regime di controllo della mobilità che però, anziché diminuire il pericolo di morte, lo aumenta, perché bloccare i confini e controllare la possibilità di spostarsi in maniera legale e dunque sicura, significa spingere le persone a imbarcarsi in viaggi sempre più pericolosi e dominati da catene di traffico spesso in mano a gruppi senza scrupoli che detengono arbitrariamente, sfruttano e torturano, chi vuole lasciare il proprio Paese diretto in Europa. Come Ali Zarroug che ha già provato, è già stato respinto e vuole ritentare perché non ha più niente, dice, che lo leghi alla Tunisia. «La rivoluzione del 2011 ha tradito le nostre promesse, ho dato i miei sogni al Paese e ora me li porto via in mare». È la frase malinconica che questo giovane affida al rumore delle onde, una frase simile a tutti quelli che ogni giorno organizzano come lui lo stesso progetto di vita. Lasciare tutto, cercare fortuna in Europa. Ci aveva provato anche suo fratello subito dopo la rivoluzione. Ali aveva 18 anni ed era stato lui ad accompagnarlo verso la barca che non è mai arrivata né ha mai fatto ritorno. Era partito proprio da lì, dal punto esatto in cui questo giovane uomo sogna l’Europa, suo fratello disperso tra le onde del Mediterraneo.