Il memorandum che l’Italia firmerà con la Cina, accordi strategici roboanti su quella Nuova via della Seta – la Belt and Road Initiative – che è la calamita geopolitica di Pechino, ha creato scandalo nell’Unione europea, anche se il governo di Roma non è il primo a cedere al corteggiamento muscolare della Cina, e non sarà l’ultimo. Per una volta la preoccupazione dell’Ue non è rimasta solo retorica, come avviene solitamente sulle questioni grandi e dirimenti (vedi il Venezuela, per dire la più recente), ma è diventata una piccola svolta nei rapporti con la Cina. Partner sì, ma da pari, senza soccombere, senza farsi fregare, come ha detto Jyrki Katainen, vicepresidente della Commissione europea, con un’espressione facile e felice: «Non esistono pasti gratis».
Nulla arriva per nulla, non pensate che il regime di Pechino sia improvvisamente generoso o mosso da chissà quale istinto di solidarietà in un momento di grandi fratture diplomatiche: la Cina pensa al suo interesse, ma essendo enorme e potente, il suo interesse rischia di mangiarsi quelli frammentati e «first» dei nostri piccoli paesi. Se c’è un interlocutore con il quale la massa compatta funziona, quello è la Cina. Ed è questa filosofia a ispirare l’Europa in questo momento.
La Commissione dice che la «piena unità» dell’Ue e dei suoi stati membri è imprescindibile, bisogna avere consapevolezza dei «rischi sulla sicurezza posti da investimenti stranieri in attività, tecnologie e infrastrutture critiche». E le regole di «concorrenza, trasparenza e mercati nell’Ue», valgono per tutti, senza infrazioni e soprattutto senza illusioni: è necessario «monitorare» gli investimenti stranieri diretti come previsto da un regolamento Ue antiCina, «salvaguardare» le infrastrutture digitali e «rispettare» le linee guida sulla partecipazione di società straniere agli appalti pubblici nell’Ue. Questo è l’unico modo per gestire la partnership strategica con il regime di Pechino senza esserne sopraffatti, e senza rimanere isolati.
Perché questo è il punto, per l’Europa: le alleanze nel mondo stanno cambiando, l’America è capricciosa e tende a isolarsi se ne intravvede l’opportunità, la Russia incombe, con le sue manipolazioni e il suo vantaggio energetico, la Cina ha un approccio cosiddetto laico al resto del mondo, non si occupa di micromanagement dei paesi, delle loro beghe interne, ma costruisce la sua rete d’influenza cercando più sudditanza dagli altri che collaborazione paritaria. L’Ue, con il suo mercato enorme e attrattivo, può e deve fare da baricentro – la geografia in questo singolo caso aiuta pure: siamo al centro – controbilanciando le proposte-calamite delle altre superpotenze.
Per farlo ci vuole compattezza. L’Italia vuole andare per la sua strada, approfittare delle opportunità cinesi con istinto da cicala, oggi va bene e domani chissà, che importa, ma non è la sola: i paesi dell’est europeo sono da anni invischiati nella rete cinese. A Budapest, se parli con i commentatori ma anche con chi semplicemente si guarda intorno, scopri che molti segnalano che a occidente ci occupiamo della Russia in modo quasi ossessivo, «ma guarda che qui se c’è vassallaggio è quello dei cinesi». Anche la Grecia fa parte di questo gruppo di paesi che spingono contro una svolta anticinese dell’Ue, e la somma dei paesi filocinesi spacca a metà il continente (sono tredici, su ventisette, o ventotto, ma gli inglesi chi li calcola più). La forza è stare insieme, l’unità è l’unica chance perché l’Europa, nella sua complessa varietà, possa almeno provare a giocare da superpotenza.