La questione venezuelana, se sostenere il regime di Nicolás Maduro o il regime change di Juan Guaidó, ha fatto perdere il sonno all’Europa. Esiste una questione ideologica, che è duplice: c’è la difficoltà generale a parlare di cambiamento di regime, retaggio delle guerre di inizio Duemila e fondamento di un approccio interventista e idealista che è stato soppiantato da realismo purissimo; c’è lo scontro tra destra e sinistra e sinistra-sinistra, perché il modello chavista del Venezuela è stato a lungo portato come l’esempio del successo globale del socialismo statalista, e molte sinistre radicali ancora oggi non vogliono abbandonare questo santino della rivoluzione bolivariana. A spazzare ogni reticenza ci sarebbe la crisi umanitaria che è al di là di ogni dubbio e ideologia: il Venezuela è un paese fallito, e questo fallimento è stato perlomeno supervisionato dal presidente Maduro, il quale impedisce l’arrivo degli aiuti – cibo e farmaci che non ci sono più in ospedali in cui mancano acqua corrente ed energia – perché pensa che i camion umanitari siano come un cavallo di Troia, piazzato dagli yankees americani e i loro alleati. Ma l’interventismo umanitario, dicevamo, non si porta più.
Esiste però anche una questione tecnica, che riguarda strettamente l’Unione europea e il suo funzionamento: l’unanimità in politica estera. I limiti di questo approccio sono emersi proprio sulla questione venezuelana: il comunicato europeo di sostegno a Guaidó è stato bloccato da un voto (quello italiano), quando pure la reticenza di un altro paese (la Grecia) era stata vinta. Così il riconoscimento di Guaidó è stato fatto dal Parlamento europeo e dalle cancellerie europee prese singolarmente, mentre la posizione dell’Ue è rimasta monca. È così che è ripartito il dibattito sull’unanimità, che era già stato affrontato a settembre dal presidente della commissione, Jean-Claude Juncker, durante il suo discorso sullo stato dell’unione: «Quando l’Europa parla con una sola voce – aveva detto – può imporre la sua visione agli altri paesi».
Nel testo scritto che era circolato, c’era anche una frase aggiuntiva che Juncker non pronunciò: «Non è giusto che uno stato membro sia riuscito a sospendere il rinnovo dell’embargo militare alla Bielorussia o abbia ritardato le sanzioni al Venezuela per molto tempo». La commissione sta lavorando a un piano che introduca la regola della maggioranza qualificata in tre aree: la risposta ad attacchi ai diritti umani, la richiesta di sanzioni efficaci e le missioni di sicurezza e di difesa. La maggioranza qualificata significa che per far passare una proposta basta il voto del 55 per cento degli stati membri che rappresenti il 65 per cento della popolazione europea. La commissione spera che i paesi europei approvino il piano al vertice di inizio maggio a Sibiu, in Romania (che ha la presidenza del semestre), ma ci sono molte resistenze. In particolare dai paesi più piccoli che non vogliono rinunciare al loro diritto di veto su una materia tanto rilevante.
Ma vale anche un’altra considerazione, che riguarda lo strumento dell’unanimità in generale: se è vero che per la maggior parte dei casi indebolisce l’azione dell’Europa, una volta ottenuta, l’unanimità è molto potente ed efficace. Immaginiamo di dover prendere una decisione esistenziale, una missione di guerra per dire, l’Unione europea potrebbe prendere una decisione a maggioranza che ha impatto su tutti? Probabilmente no. La voce unica funziona quando è, appunto, unica, e infatti in Venezuela i convogli umanitari sono ancora bloccati.