Parliamo europeo

Una solitudine necessaria (lo dice Trump)
/ 31.12.2018
di Paola Peduzzi

L’alleanza tra l’Europa e gli Stati Uniti è una gara al ribasso, e se avessimo ascoltato la cancelliera tedesca Angela Merkel quando disse, visionaria, «rimbocchiamoci le maniche e impariamo a fare da soli» senza questa America trumpiana così ingestibile, forse oggi la gara l’avremmo vinta. O forse no, forse non è una gara che l’Occidente può vincere: l’Europa si trova a dover prendere le distanze dall’unica superpotenza di riferimento che ha, non ha sostituti, non ha un rimpiazzo facile, o l’America o niente. E intanto l’America – sarebbe meglio dire il suo presidente, Donald Trump, ma più passa il tempo più la distinzione è una carezza superflua – colpisce tutti i suoi alleati e principalmente l’Europa: c’è guerra commerciale, c’è guerra ideologica sul liberalismo e l’apertura all’immigrazione, c’è guerra sull’accordo nucleare con l’Iran e ora c’è anche il ritiro delle truppe americane dalla Siria, ultima doccia ghiacciata di un anno freddissimo.

I trumpiani sostengono che soltanto così, con le maniere forti, si riuscirà a trovare un nuovo equilibrio internazionale e a smascherare le ipocrisie europee: il Vecchio continente ha la pessima abitudine di essere critico e schizzinoso nei confronti degli americani, salvo poi dipendere completamente da loro quando si parla di sicurezza e di commerci. Per questo, dicono i trumpiani, è necessaria un po’ di solitudine europea, in modo che poi la presenza americana abbia più valore, più peso.

Trump ha l’ossessione della Francia, per dire: da quando ci sono i gilet jaunes e la loro protesta contro Emmanuel Macron, Trump tuitta e commenta «Parigi che brucia», come se fosse l’emblema degli errori e dell’arroganza francese e di tutta l’Europa. E quando si vedono quei gilet gialli comparire nella propaganda del regime iraniano che festeggia il ritiro delle truppe americane dalla Siria come se fosse una propria vittoria, si capisce in un istante come è cambiata la polarità del mondo. La superpotenza americana abdica al suo ruolo, porta a casa le truppe e dice agli alleati: cavatevela. Per chi è sul campo a combattere – come i curdi – è un tradimento, per gli europei è un pochino meno, non rischiano la vita ogni giorno, ma pur sempre un affronto. Al momento a Bruxelles non ci sono state reazioni decise: si sta ancora digerendo l’abbandono del deal nucleare con l’Iran, pensare anche alla Siria è complicato.

La Francia ha detto che le truppe presenti – poche – resteranno, e continueranno a dare il loro appoggio alle forze siriane che combattono sia lo Stato islamico sia il regime di Bashar el Assad. Così anche Germania e Regno Unito, ma è chiaro che ora, oltre alla sicurezza, ci saranno decisioni importanti da prendere: che fare con il regime di Damasco, che fare con l’Iran partner commerciale ma sponsor del terrorismo, che fare con la Turchia, membro della Nato ma ingovernabile, che fare con la Russia soprattutto, che mordicchia sul confine est dell’Europa e intanto diventa l’arbitro unico del conflitto in Siria post americano. Gli ottimisti vedono questa fase burrascosa come un’occasione per ridare un baricentro europeo alla geopolitica, ma c’è anche la possibilità che il ritirismo americano lasci l’Europa più esposta, più fragile, più sola contro minacce che si combattono soltanto stando uniti.