La diplomazia a volte ha bisogno del suo contrario: quando il presidente del consiglio Ue Donald Tusk ha parlato di uno «speciale posto all’inferno» per chi ha promosso la Brexit senza avere lo straccio di un piano su come portarla avanti, non solo ha scandito bene le sue parole ma è poi corso a ribadirle su Twitter, dopo aver ridacchiato insieme al premier irlandese Leo Varadkar che lo avvertiva che le sue dichiarazioni avrebbero suscitato le ire della stampa britannica.
E meno male che a Londra qualcuno si è adirato, riprendendo le metafore dantesche per dire che un mondo senza eurocrati «sembra piuttosto il paradiso» (Nigel Farage), che «Tusk non è Tommaso d’Aquino» (Jacob Rees-Mogg) o chiedendo semplicemente delle scuse (Andrea Leadsom), perché Bruxelles, alla vigilia della visita della premier Theresa May per cercare di riaprire il capitolo irlandese, non poteva non mandare un segnale chiaro di insofferenza nei confronti della logica autoreferenziale del dibattito di Westminster. Che dopo aver votato per trovare «soluzioni alternative» al backstop irlandese ha dimostrato di non aver maturato nessuna visione realistica di come portare avanti il suo sogno indipendentista.
L’Irlanda è come il neonato conteso tra due madri davanti a Re Salomone. Solo che in questo caso c’è chi preferisce condannare l’isola dal passato tormentato alla scissione netta del «no deal» che rendersi conto che il backstop, ossia la clausola di salvaguardia con cui la Ue vuole evitare a ogni costo e in qualunque circostanza il confine fisico, non è una cattiveria gratuita perpetrata nei confronti di Londra ma il risultato di un’attenta e lunghissima valutazione della situazione e di tutti i suoi effetti. Nel corso della sua visita a Belfast, la May aveva l’aria rilassata di chi sa che sta parlando tra persone che capiscono bene il problema, visto che l’Ulster ha votato per il Remain e ha una maggioranza di partiti a favore del backstop, che però non piace agli unionisti sui cui voti il governo deve contare per raggiungere una maggioranza.
E non piace ai feticisti della Brexit radicale, quella che deve avere i contorni dell’autolesionismo per essere pura, incorrotta, assoluta e che ha la seconda guerra mondiale come mito fondatore: grazie allo stoicismo dimostrato allora dalla popolazione britannica non ci saranno problemi troppo difficili da affrontare, code troppo lunghe alle frontiere, penuria di farmaci troppo grave, pomodori che non possano essere coltivati in giardino in mancanza di import. Quando questa fantasia svanirà e la gente si ritroverà furibonda per le strade a pretendere quello a cui crede di avere diritto, la spaccatura sociale sarà profonda, la crisi irreversibile. Forse il posto all’inferno per i vari Boris Johnson, bravi con gli slogan e meno con i dettagli pratici, esiste davvero e Tusk ha fatto bene a ricordarlo.
Perché la Brexit non è la seconda guerra mondiale, né la crisi del 2008: è una ferita autoinflitta da una classe politica che aveva alcune giuste ragioni per avercela con Bruxelles ma che non ha saputo trovare una maniera intelligente di pretendere una correzione senza farne una battaglia ideologica confusa e dannosa. Un documentario della BBC di questi giorni, Inside Europe: Ten Years of Turmoil, ricostruisce la maniera in cui l’ex premier David Cameron arrivò a promettere un referendum sulla Ue, in un contesto in cui l’Eurozona era trascinata verso l’abisso dalla crisi della Grecia e reagiva compattandosi e seminando il panico nei palazzi di Londra.
Erano gli anni in cui Farage e il suo Ukip sempre in crescita rappresentavano una spina nel fianco per i Tories al governo insieme agli europeisti LibDem e, almeno dalla ricostruzione della BBC, quella di Cameron sembrava una scelta obbligata, inevitabile, qualcosa che anzi, fosse andato tutto bene, avrebbe stroncato qualunque populismo nel Regno Unito per molti anni. E invece ora, a cinquanta giorni dall’uscita dalla Ue, il populismo è così invalso e radicato che non c’è pudore a chiedere di rimettere in discussione la soluzione per l’Irlanda come se si trattasse di spostare una fioriera e cambiare la disposizione dei mobili in salotto. Guy Verhofstadt, che negozia la Brexit per conto del Parlamento europeo, ha spinto un po’ più in là la metafora di Tusk e ha detto che Lucifero non ce li vorrebbe con lui, gli autori di questo disastro.
La May, ormai prossima allo stato liquido o gassoso, premier fantasma di un parlamento fantasma, continua a girare per capitali ripetendo lo stesso messaggio, occhieggiando a destra e agli euroscettici che vogliono modifiche sul backstop irlandese che non sembrano bastare mai e ignorando la sinistra che le tende più o meno la mano suggerendo una Brexit più morbida, fatta di unione doganale (e quindi impossibilità di stringere accordi commerciali indipendenti) e allineamento con il mercato interno, una Brexit norvegese ragionevole e poco corsara. Salomonica, verrebbe da dire.
Tusk, nella sua amara tirata a favor di microfoni, ha ammesso un’altra cosa importante mercoledì scorso, ossia che la Brexit avverrà, ormai i dati sono incontrovertibili, ma che questo è dipeso anche dal fatto che nessun politico di rango si sia fatto carico di perorare la causa del Remain o del secondo referendum in maniera vigorosa. Per il Labour di Jeremy Corbyn la questione è sempre stata troppo spinosa. Come dimostra il caso di Sunderland, città operaia del Nord dove il 61% ha votato per la Brexit salvo ritrovarsi con Nissan che comprensibilmente sposta tutto in Giappone davanti alla perdurante incertezza e mette a rischio 6700 posti di lavoro. L’opposizione non si è presa la responsabilità di dire le cose come stavano e mettere in guardia chi della Brexit sarebbe stata la prima vittima: le fasce deboli. Ci sarà un posto all’inferno anche per loro? Bisognerebbe chiedere a Tusk.
Come se ci fosse ancora tutta la vita davanti, i voti parlamentari continuano a slittare e la May e gli esponenti europei si danno appuntamento alla fine di febbraio. Con il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, in maniera molto prevedibile, la discussione è stata «robusta ma costruttiva» e la premier non è riuscita a strappare nessuna promessa sulla possibilità di riaprire l’accordo di uscita dalla Ue firmato a fine novembre, anche se a Bruxelles c’è consapevolezza del fatto che occorre trovare qualcosa che possa superare le forche caudine di un voto parlamentare. Il fattore tempo, a questo punto, è essenziale: bisogna perderne il più possibile per arrivare proprio a ridosso dell’appuntamento del 29 marzo, dopo aver guardato in faccia l’inferno molto reale di un paese in cui si parla di applicare la legge marziale per contenere i disordini che si verificherebbero e di portare la regina in un posto segreto per trarla in salvo.
Per chi pensa che un tale scenario sia inverosimile, basta pensare a quello che accadde nell’estate del 2011, quando Londra fu messa a ferro e fuoco dai riots. O al fatto che nella tarda primavera del 2016, poco prima del referendum, Jo Cox fu uccisa al grido di Britain first da uno squilibrato di estrema destra. Ce ne sono di passioni contrastanti che ardono sotto la cenere della compostezza britannica. La May lo sa e sa che l’unica soluzione per sanare queste contraddizioni si trova al momento nelle sue mani rese fragili da due anni e mezzo politicamente impossibili, gestiti senza verve e senza capacità di leadership. Chissà a cosa portano inettitudine e buona volontà: paradiso o inferno?