Il suo segreto? Una faccia da «bonjour tristesse», che l’accompagna da mattina a sera e già predispone al peggio l’interlocutore: di conseguenza quando si realizza che è pure arguto, oltre che intelligente e colto, verrebbe voglia di stappare champagne. Il problema, però, è riuscire ad ascoltare ciò che dice: il sussurro è infatti il mezzo espositivo prediletto. Un sussurro così flebile che a volte si chiamerebbe il prete per l’estrema unzione e a volte s’interpreta il contenuto all’opposto del suo significato. Non a caso li hanno definiti i «sussurri del niente» facendo torto a quel desiderio di argomentata moderazione, che da sempre contraddistingue i suoi felpatissimi passi.
Paolo Gentiloni, sessantaduenne presidente del Consiglio, che per nonchalance democratica taglia il secondo cognome, Silverj, di antica estrazione nobiliare, è la più convincente dimostrazione che moriremo democristiani anche ora che la Dc non esiste più. E malgrado egli mai lo sia stato, anzi abbia sempre militato sulla barricata opposta. Tuttavia con lo scorrere dei decenni dall’incendiaria sinistra extraparlamentare è gradualmente transitato a un riformismo sobrio, in talune circostanze persino più grigio degli abiti che indossa. No, Gentiloni è democristiano nell’animo al pari di quel prozio capace nel 1913 di far entrare i cattolici nell’agone politico dopo quasi mezzo secolo di astensione a causa del veto di papa Pio IX. E nel solco della vecchia moda democristiana guida un governo a tempo, di quelli chiamati «balneari», per quanto siamo a Natale.
Di Gentiloni nipote le cronache se ne accorsero a metà degli anni 90: portavoce del sindaco di Roma, Rutelli. Era un quarantenne stagionato, fin lì giornalista di seconda fila con l’unico merito di aver conosciuto Rutelli durante la militanza ambientalista. Sembrava già fuori ruolo da assessore capitolino al Turismo e al Giubileo. Invece la candidatura di Rutelli a premier nelle elezioni del 2001, di cui è il coordinatore, gli apre una prospettiva nazionale, nonostante la batosta inflitta da Berlusconi: partecipa alla nascita della Margherita, è presidente della commissione di vigilanza Rai, ministro delle Comunicazioni con Prodi nel 2006, figura tra i fondatori anche del Partito Democratico.
Ma allorché si presenta alle primarie del suo partito per le comunali di Roma, arriva soltanto terzo, su tre. Una bocciatura così sonora da mettere la sordina alla folgorazione per Renzi. Diventa ministro degli Esteri per sostituire la Mogherini ascesa a commissario europeo. E ora presidente del Consiglio per tenere calda la poltrona all’azzoppato leader, almeno a dire dei malevoli. Sempre con quell’aria da requiem e così sia, perfetto per una commemorazione, un po’ meno per una celebrazione.