Juan Manuel Santos, attuale presidente della Colombia ed ex ministro della guerra del non proprio pacifico governo di Alvaro Uribe (2002-2010), ha vinto il Nobel per la Pace. Una scelta squisitamente politica, applaudita da molti e detestata da tanti.
Il Comitato di Oslo per l’assegnazione del Nobel ha voluto porgere una bombola di ossigeno al difficile e delicatissimo accordo di pace tra il governo colombiano e la narco-guerriglia delle Forze armate rivoluzionarie di Colombia (Farc), in guerra da cinquantadue anni contro lo Stato colombiano. Quell’accordo è stato promosso e fortemente voluto dal presidente Santos che ci si è giocato sopra tutto il suo capitale politico. Ed è stato bocciato – per meno dello 0,5 per cento dei voti, ma pur sempre bocciato – da un referendum popolare che Santos ha convocato per la ratifica sperando di farne un plebiscito su sé stesso e che si è invece rivelato un boomerang in grado di decapitare non solo la sua personale carriera politica, ma anche una preziosa pace firmata dopo mezzo secolo di orrori di guerra.
Vediamo quindi chi è Juan Manuel Santos, questo militarista convinto che con il pugno di ferro ha condotto, da capo delle forze armate mentre il suo ex mentore Alvaro Uribe era presidente della repubblica, gli attacchi più efficaci e più sanguinosi alla guerriglia, mettendola sotto scacco senza mai riuscire a sconfiggerla, fino a convincersi finalmente che la soluzione politica era l’unica via possibile per mettere fine al folle massacro.
Figlio della più alta borghesia di Bogotà – suo padre era il proprietario de «El Tiempo», il quotidiano più importante della Colombia, suo zio era l’ex presidente della Repubblica Eduardo Santos, suo cugino il vicepresidente del governo Uribe – ha studiato economia e amministrazione d’impresa all’università del Kansas, è diventato giornalista e poi politico di professione, prima come liberale e poi, slittando a destra accanto a Uribe.
Santos era presidente della repubblica da solo tre giorni quando ricevette a Santa Marta, nei meravigliosi Caraibi colombiani, l’allora presidente venezuelano Hugo Chavez. Da politico pragmatico decise che per tessere la difficilissima trattativa con i guerriglieri avrebbe chiesto la mediazione venezuelana, utile per il rapporto di protezione e appoggio, non solo logistico, che il leader venezuelano garantiva alla leadership della guerriglia. Spalancare la porta a Hugo Chavez significava però sbatterla in faccia da Alvaro Uribe. Santos lo sapeva benissimo. E scelse Chavez.
Uribe non era un qualsiasi dignitario colombiano. Era, ed è tuttora, il politico più potente della Colombia e, soprattutto, era il padrino politico di Santos. L’ex presidente si sentì tradito due volte. Prima, quando si rese conto che il suo apprezzato ministro della difesa si era aperto al suo fianco un margine politico non per fargli da mansueto delfino ma per farsi eleggere al suo posto. Poi, una volta eletto, decidendo da presidente quello che Uribe considera da tutta la sua vita come il peggior male possibile: la soluzione politica del conflitto con la guerriglia.
C’era bisogno di riunirsi pubblicamente con Chavez? Non era possibile avere con l’allora presidente venezuelano un incontro segreto? No, non era possibile se si voleva essere credibili nei confronti della controparte venezuelana. Santos era considerato a quei tempi a Caracas l’erede di Uribe. Un erede scaltro, ambizioso al punto da mettere politicamente in ombra il suo padrino, ma pur sempre il suo erede. E soprattutto il suo ministro della guerra, visto che la sua pressoché esclusiva occupazione da ministro della difesa fu fare una guerra spietata alle spietate Farc.
Per Chavez essere ricevuto pubblicamente da Santos significò avere la prova tangibile che il presidente colombiano aveva superato l’influenza di Uribe tanto da umiliarlo con una mossa definitiva: invitare il suo acerrimo nemico e chiedergli di diventare alleato del governo.
Chavez, che voleva la pace in Colombia, pragmaticamente e da un punto di vista politico anche generosamente, accettò di fare da ambasciatore di quel signore bogotano che, come ministro della difesa, aveva deciso e praticato la controffensiva più pesante che i cinquantadue anni di guerra tra esercito e Farc avessero mai conosciuto. Ne prese le distanze solo quando, ormai molto malato, capì che Santos, da presidente, continuava a lasciar commettere operazioni coperte contro i guerriglieri con i quali voleva trattare perché aveva lo strategico obiettivo di riuscire a farli sedere al tavolo di mediazione in una situazione di debolezza.
Santos non è mai riuscito a sconfiggere militarmente la guerriglia, sempre che sia possibile sconfiggere militarmente un gruppo armato che esiste da mezzo secolo e che ha avuto per un lungo periodo il controllo di una larga parte del territorio dello Stato. In compenso è stato colui che ha inflitto alle Farc i colpi più duri in mezzo secolo di guerra. Fu sotto il suo comando, come ministro della difesa, che fu ucciso in una spettacolare azione Raul Reyes, il capo militare della guerriglia. Ucciso non in territorio colombiano, ma in territorio ecuadoriano. Fu L’Operazione Felix: il primo marzo del 2008 la Forza aerea colombiana, seguita poi da una azione di terra coperta da elicotteri da guerra, bombardò a tappeto una vasta area rurale nella selva ecuadoriana, ben oltre il confine con la Colombia. Almeno ventidue guerriglieri morti, tra cui Reyes, tradito da una spia e, secondo fonti mai confermate ufficialmente, da un telefono satellitare usato il 27 febbraio per ricevere la telefonata di Hugo Chavez che lo informava della liberazione di alcuni ostaggi.
Fu sempre sotto il comando di Santos che avvenne la liberazione della ex candidata presidenziale dei Verdi, Ingrid Betancourt, dopo sei anni di sequestro.
Al comitato di Oslo non sarà sfuggito nemmeno che è stato sempre sotto il comando di Santos, che la Colombia ha conosciuto la lunga serie dei cosiddetti «falsi positivi», ossia l’uccisione, da parte dell’esercito regolare, di molti civili fatti passare poi per guerriglieri. E che è con Santos alla guida, mentre già erano state intessute le trattative segrete con le Farc, che è stato ordinato di uccidere il leader guerrigliero Alfonso Cano.
Nel tentativo di non vedere reso vano da nuove sventagliate di mitra il fragilissimo accordo di pace firmato dal governo di Bogotá e i capi delle Farc all’Avana, il Comitato di Oslo ha deciso di premiare non l’intera carriera, con la sua scia di sangue, dell’attuale presidente della Colombia, ma l’ultima fase della sua storia politica, tenacemente legata alla volontà di porre fine a mezzo secolo di conflitto.
Comprensibile che chi si aspetta da Oslo la difesa della pace intesa come non violenza, resti sgomento vedendo il Nobel nelle mani di Santos, che della violenza, anche feroce, ha fatto un uso politico strumentale ogni volta che l’ha ritenuto utile.
Resta il fatto che è stato nei dipartimenti più martoriati dalla ferocia della guerriglia che si è registrato il miglior risultato del sì al referendum sull’accordo. A Boyayà, per esempio, dove nel maggio 2002 negli scontri con i paramilitari le Farc uccisero 79 persone che si erano rifugiate in una chiesa, il 94% ha votato per il sì.