Ortega cede (forse) alle pressioni

Nicaragua – Dopo mesi di proteste Managua accetterebbe di liberare tutti i suoi prigionieri politici come concessione per far ripartire il dialogo con l’opposizione e ottenere la rimozione delle sanzioni imposte sul Paese da Usa e Ue
/ 25.03.2019
di Angela Nocioni

Punto di svolta nella crisi politica che dall’aprile scorso tiene in scacco il Nicaragua. La mediazione vaticana e quella della Organizzazione degli stati americani hanno ottenuto l’impegno da parte dell’ex sandinista Daniel Ortega di liberare entro tre mesi tutti i detenuti politici, oltre cinquecento persone secondo le principali organizzazioni umanitarie, come condizione alla riapertura del tavolo di dialogo con l’opposizione e alla sospensione delle sanzioni internazionali contro il regime. Si rincorrono voci di torture. I morti accertati dall’inizio della crisi sono almeno 325, la maggior parte delle vittime sono studenti.

La trattativa tra parti opposte per uscire dalla crisi politica era saltata a inizio marzo. Il regime ha da ottobre vietato ogni manifestazione di dissenso per arginare le proteste di massa. Dieci giorni fa il divieto è stato clamorosamente sfidato da centinaia di persone riversatesi in strada per chiedere la liberazione di tutti i detenuti politici, la gran parte dei quali è accusata di «terrorismo». 

La reazione di Ortega è stata scomposta. Centosessantacinque persone sono state arrestate in meno di tre ore. Tra loro ci sono moltissimi studenti, medici, professori, religiosi. Il rappresentante vaticano a Managua, Waldemar Stanislaw Sommertag, ha ottenuto subito la liberazione di alcuni detenuti e poi ha continuato a dialogare con il regime per convincere Ortega a trattare. Managua è terrorizzata dall’azione di quella che Ortega chiama «polizia volontaria», squadracce che accompagnano la polizia politica e fanno il lavoro sporco per suo conto dissuadendo con minacce e violenze d’ogni genere la creazione di una opposizione strutturata soprattutto nelle università pubbliche, dove le proteste sono cominciate l’anno scorso.

Dopo mesi di sussurrate pressioni da parte della diplomazia continentale, quell’ultima retata ha scatenato le reazioni della comunità internazionale. Gli Stati Uniti e la Spagna, per primi, hanno condannato «l’uso sproporzionato della forza». L’Unione europea ha chiesto la «dissoluzione urgente dei gruppi paramilitari».

La nuova fiammata repressiva aveva di fatto congelato le negoziazioni avviate, con poca convinzione per la verità, tra il governo d’Ortega e l’Alleanza civica, il fronte d’opposizione nato su mediazione della Chiesa cattolica e al cui interno figurano imprenditori, studenti, sindacalisti, dirigenti di movimenti contadini e noti accademici.

L’Organizzazione degli stati americani (Oea) aveva infatti fermato il lavoro al tavolo delle trattative vincolando la sua partecipazione alla previa liberazione «di tutti i detenuti politici», condizione inaccettabile per Ortega. Il segretario generale della Oea, Luis Almagro, aveva scritto al ministro degli Esteri del regime, Denis Moncada, di essere disposto a far negoziare con Ortega, per conto della Oea, Luis Angel Rosadilla, un emissario che Ortega conosce bene e con il quale si è già incontrato più volte. Almagro aveva ventilato anche la proposta di nominare vari consiglieri per temi specifici al fine di favorire su argomenti concreti una possibilità di compromesso tra regime e opposizione. Aveva però posto come condizione necessaria la liberazione di tutti i detenuti politici.

Questo genere di richieste sono sempre state considerate intollerabili da Ortega che le respinge, di solito, come tentativi di «interferenza nella sovranità del Paese» anche quando sua moglie (sua vicepresidente) fa finta di prenderle in considerazione mostrandosi disposta a valutare la possibilità di scarcerazioni di massa. La coppia Ortega-Murillo non ha mai sopportato pressioni dirette e si è sempre mostrata disposta a restare nel completo isolamento politico continentale (con l’eccezione dei governi di Caracas e dell’Avana che però al momento, con la tragedia politica in corso in Venezuela, hanno altre preoccupazioni) pur di non cedere. Se non si tratta di un bluff degli Ortega, stavolta la promessa di togliere le sanzioni dovrebbe invece aver funzionato.

II governo alla fine del mese di agosto ha ordinato al rappresentante dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani e al suo gruppo di lavoro di lasciare il Paese perché avevano accusato il regime di commettere abusi contro i manifestanti. Ortega ha respinto quelle accuse definendole «eccessive, parziali e soggettive». Il ministro degli Esteri, in una lettera inviata al rappresentante regionale dell’Officina dell’Alto Commissionato della Onu, ha congedato la missione delle Nazioni Unite come «non più necessaria». 

La possibilità di riannodare con efficacia il dialogo -  unica via d’uscita a meno di voler aspettare che Ortega sia disarcionato per una implosione interna al regime, non immediata né scontata perché si tratta di un regime a carattere familiare in cui se cade lui cadono tutti gli altri parenti stretti sistemati nei posti chiave – dipende ora dall’opposizione. Che ha al suo interno delle posizioni diversissime. 

La frattura principale è tra gli studenti e gli imprenditori. Questi ultimi vogliono scongiurare il precipitare dell’economia e dei loro affari con l’afferrarsi di Ortega al potere e sono quindi disposti a negoziare a qualunque costo con il regime perché vogliono uscire prima possibile da questo duro clima di muro contro muro. Sono stati loro lo scorso febbraio a chiedere ed ottenere un incontro con Ortega per riannodare le condizioni di una mediazione possibile. Gli studenti universitari non sono invece disponibili a trattare con il regime su punti considerati «non oggetto di compromessi possibili». Per loro la reale scarcerazione di detenuti come atto unilaterale da parte di Ortega è la condizione imprescindibile per sedersi al tavolo delle trattative.