Oro, il nuovo denaro

Crisi Venezuela – Le riserve auree stanno diventando importanti per ottenere liquidità e per fronteggiare le difficoltà economiche, in un contesto tradizionalmente condizionato dal petrolio
/ 11.03.2019
di Angela Nocioni

L’oro venezuelano è la flebile speranza del regime chavista di riuscire a darsi un po’ d’ossigeno dopo l’annuncio delle sanzioni statunitensi all’industria del petrolio, l’azienda pubblica Pdvsa. Il commercio di petrolio con gli Stati Uniti è sempre stato la principale fonte di dollari per il regime.

Chi blocca Pdvsa blocca il Paese. Questo i chavisti lo sanno, anche perché l’hanno vissuto sulla loro pelle durante il congelamento di Pdvsa nel dicembre del 2002, una sorta di serrata contro l’allora presidente Hugo Chávez che mise per due mesi in ginocchio il Paese e che Chávez chiamò «el golpe petrolero».

Le sanzioni decise da Trump contro Maduro dopo l’autoproclamazione come presidente ad interim del presidente del Parlamento esautorato dal regime, il trentacinquenne Juan Guaidó, non hanno interrotto il flusso d’affari tra i due Paesi. Se così fosse stato, le raffinerie texane che lavorano il greggio viscoso venezuelano rimarrebbero senza petrolio da raffinare e rischierebbero la chiusura. Ma che le sanzioni non interrompano il flusso di petrolio verso gli Stati Uniti conta poco per Maduro. Perché gli chiudono comunque il rubinetto di dollari freschi.

Per la prima volta dopo vent’anni dall’arrivo di Chávez al potere, la Casa Bianca ha inflitto un serio danno economico al governo di Caracas: gli ha tolto da sotto il naso il cash derivante dalla vendita di greggio e lo lascerà entro breve tempo senza benzina.

Le transazioni di Pdvsa con gli Stati Uniti non sono quindi bloccate, ma i soldi statunitensi per il petrolio venezuelano confluiranno su un conto di cui potrà disporre solo chi sarà indicato da Juan Guaidó, riconosciuto come presidente al posto di Maduro dagli Stati Uniti e dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale.

L’ammontare della cifra congelata, secondo l’annuncio del consigliere per la sicurezza della Casa Bianca, John Bolton, sarebbe di 7 miliardi di dollari già presenti nelle casse di Pdvsa negli Stati Uniti e di altri 11 miliardi nel 2019.

Per rimanere a galla e per non perdere quelle entrate che gli hanno assicurato finora il sostegno degli alti vertici militari, Nicolás Maduro ha tentato di vendere tre tonnellate di riserve d’oro agli Emirati arabi che sono, insieme alla Turchia, i principali destinatari dell’export d’oro venezuelano. Ha tentato cioè una accelerazione della svendita d’oro che ha già iniziato da tempo per garantirsi cash.

Tanto oro ha venduto negli ultimi anni per compensare le minori entrate provenienti dall’industria del greggio – dovute non solo al crollo del prezzo del petrolio, ma soprattutto alla diminuzione drastica della capacità produttiva di Pdvsa messa in mano a una dirigenza militare del tutto priva di competenze di base per far funzionare l’impresa – che le riserve d’oro si sono dimezzate. Delle 361 tonnellate di riserve d’oro del 2014 ne sono rimaste 162.

Negli ultimi due anni da Caracas è stato esportato oro per due miliardi di dollari verso Emirati e Turchia: un miliardo e centomila dollari verso gli Emirati e il resto verso la Turchia.

Ankara raffina l’oro venezuelano, l’ultima visita di un alto dirigente del regime chavista in Turchia risale solo al mese scorso, quando il vicepresidente dell’economia Tareck El Aissami, ha visitato la raffineria turca di Çorum, vicino ad Ankara, dove viene lavorato gran parte del metallo prezioso in arrivo da Caracas.

Il problema del denaro fresco per il regime è fondamentale in questo momento. La Russia ha già prestato 17 miliardi di dollari negli ultimi dodici anni e s’è presa il controllo di una buona parte dei giacimenti minerari preziosissimi dell’Orinoco. La Cina ha iniettato 60 miliardi di dollari nel corpo esangue del regime e se li fa pagare in petrolio: 400 mila barili al giorno fino al 2025 (l’accordo capestro prevede che Caracas paghi anche il costo del trasporto).

Maduro confida quindi nell’oro. Il Venezuela possiede uno dei più grandi giacimenti auriferi del mondo: più di centomila metri quadrati, il 12% della superficie del Paese dove si stima ci sia-no almeno settemila tonnellate di oro.

Il sottosuolo venezuelano è una sorta di fortunata anomalia geologica, tanto è ricco. Nell’Arco dell’Orinoco, un’ampia zona nel sud est del Paese tra la Guyana e il Brasile, non c’è solo la più grande riserva di greggio del mondo. Ma anche oro, rame, diamanti, ferro bauxite e una infinità di altri metalli preziosi in quantità. Molti dei quali già in mani cinesi e russe attraverso joint venture con il Caracas.

La storia recente dell’oro venezuelano offre una fotografia dello stato delle risorse pubbliche venezuelane.

Finalmente persuaso della necessità di diversificare la produzione economica del Paese e le fonti di dollari del suo governo, l’ex presidente Hugo Chávez tentò di metter mano alla catena di estrazione dell’oro dell’Orinoco negli ultimi anni prima della sua morte avvenuta nel 2013. Non più grandi concessioni minerarie, ma piccole parcelle da distribuire tra piccoli produttori. Non più cinquemila ettari a ciascun gruppo dedito all’estrazione, ma parcelle la cui estensione oscillava da un minimo di 10 ettari a un massimo di 50 ettari offerte a piccoli produttori che si occupassero di tirar fuori l’oro e di metterlo in commercio. Questo era il progetto. Chávez la spiegò come l’occasione per dare la possibilità agli abitanti del luogo di vivere dell’oro tirato fuori dalla loro terra.

Il piano è fallito miseramente. In pochi anni il metodo di estrazione è tornato a modalità da Medio Evo. Piccone e pala, nessun controllo. Si scava, si prende quel che si trova e si passa a un pezzetto di terra vicino dove poter scavare, tirar fuori un po’ di prezioso metallo e così si va avanti. Con danni seri ai giacimenti, mai scavati in profondità, ma soprattutto con rischi alti di contaminazione ambientale.

Il livello di corruzione altissima raggiunto dagli alti militari che hanno il controllo della zona ha fatto fiorire il business delle miniere illegali, riguarda il traffico l’oro e anche quello del resto dei minerali presenti nell’Arco dell’Orinoco. Non sono i piccoli produttori locali a vivere dell’oro estratto, ma i grandi trafficanti.

Nelle vicende legate alle miniere illegali dell’Orinoco s’è mostrata la leggendaria doppiezza del personaggio politico Hugo Chávez. Ogni volta che riceveva denunce dai minatori, Chávez prometteva repulisti severissimi tra i responsabli della catena di controllo sulla produzione e la commercializzazione dell’oro. Ogni volta che gli attivisti politici che lavoravano all’Orinoco, conoscevano da vicino il lavoro dei minatori e ne registravano quindi le lamentele, riuscivano ad avere incontri con Chávez, il presidente li rispediva a casa entusiasti, quasi sorpresi di sentirsi sorpassati a sinistra da un presidente della repubblica che si infuriava a sentire i loro resoconti, malediceva l’ingordigia, la disonestà, l’assenza di spirito patrio di chi, sosteneva lui, stava boicottando il suo esperimento socialista nella socializzazione dell’oro. Li esortava ad occupare la miniera, a farsi sentire, giurava che li avrebbe aiutati e sostenuti. E dopo due giorni firmava invece un decreto in cui nominava un paio di generali a capo del settore. Con tanti saluti ai minatori in rivolta.

Il commercio ora è in mano innanzitutto ai guerriglieri dell’Esercito di liberazione nazionale della Colombia, l’altro gruppo guerrigliero colombiano oltre alle disciolte Farc. Grossi criminali brasiliani, banditi di ogni provenienza, miliziani locali. Tutti fanno affari con l’oro dell’Orinoco tranne la povera gente che vive lì. Teoricamente l’oro estratto dall’Orinoco dovrebbe finire venduto alla Banca centrale di Venezuela, sempre teoricamente veglierebbero su questo meccanismo degli agenti statali.

Poiché l’oro non è difficile da trasportare come il greggio, facile è per i trafficanti farlo uscire dal Venezuela. Lo portano in Brasile, in Colombia e nelle isole delle Antille. Curaçao, Bonaire, Aruba sono proprio lì davanti, a nemmeno 60 chilometri dalla costa. Sono ex colonie olandesi e molto dell’oro trafugato dal Venezuela finisce in Olanda. Il partito socialista olandese ha denunciato il traffico, chiesto controlli, ma la denuncia non pare aver sortito alcun risultato finora.

Due anni fa fu annunciata in pompa magna una ristrutturazione del mercato dell’oro venezuelano. Ci fu una retata di dieci persone, accusate di aver lucrato sul traffico. Tutto fu messo in mano a un nuovo gruppo di militari. Tutto è continuato come prima. È avvenuto, semplicemente, un avvicendamento di trafficanti. È stato smantellato un sistema con dei capi e sostituito da un sistema pressoché identico con altri capi.