Orban sconfitto sui migranti

Ungheria: Il leader conservatore aveva chiesto al popolo magiaro di votare «no» alle quote decise dall’Unione per ricollocare i rifugiati in Europa. Ma il referendum non ha raggiunto il quorum necessario
/ 10.10.2016
di Marzio Rigonalli

Il referendum ungherese del 2 ottobre sulla suddivisione dei migranti in Europa ha ridimensionato le velleità di un leader, il primo ministro Orban, che vuole bloccare tutti coloro che cercano di entrare in Europa con l’erezione di muri e la chiusura della frontiere nazionali, e che vuol estendere questa soluzione a tutti i paesi membri dell’Ue.

In gioco c’era il piano di ripartizione di 160 mila migranti, presenti in Grecia e in Italia, approvato il 25 settembre 2015 dai ministri dell’interno dell’Ue, a maggioranza qualificata, contro il parere di Ungheria, Romania, Cechia e Slovacchia. Secondo questo piano, l’Ungheria, che è un paese di circa 10 milioni di abitanti, avrebbe dovuto accogliere 1294 migranti. Finora questo piano è stato rispettato da ben pochi governi, poiché soltanto circa 5 mila persone sono state trasferite in altri paesi europei, di cui una piccola parte anche in Svizzera. Nonostante questa situazione, Orban, attraverso il referendum, ha tentato di togliere all’Ue il potere di decidere sui migranti per darlo, per quanto concerne l’Ungheria, al parlamento di Budapest. Il tentativo è fallito, perché la partecipazione al voto è stata soltanto del 40%, lontana dal quorum richiesto del 50%. I tre milioni di ungheresi che hanno messo nell’urna la scheda favorevole al progetto del governo, hanno però consentito ad Orban di gridare vittoria e di annunciare una prossima, possibile modifica costituzionale che conferisca al parlamento ungherese il potere di decidere sull’accoglienza dei migranti. Un secondo progetto dunque che, se verrà messo in atto, rischia di contrapporre di nuovo Budapest a Bruxelles. L’Ue ritiene che le decisioni sottoscritte dai governi nazionali, prese all’unanimità o a maggioranza qualificata, vanno rispettate da tutti i paesi membri.

Viktor Orban, alla guida del governo ungherese dal 2010, esce dunque indebolito dal voto del 2 ottobre, sia sul piano interno che su quello esterno. L’elevato numero di ungheresi che non si sono recati alle urne dimostra che nel Paese vi è una crescente opposizione alle scelte nazionalistiche del primo ministro. Un’opposizione che potrebbe trovare un’espressione politica più forte di quanto sia successo finora. Sul piano esterno, la stella di Orban rischia di brillare un po’ meno in Europa e, soprattutto, all’interno del gruppo di Visegrad, gruppo che comprende quattro paesi dell’Europa centrale, l’Ungheria, la Polonia, la Repubblica ceca e la Slovacchia, e che è contro la politica migratoria dell’Ue. Sul piano internazionale, il premier ungherese è apparso più volte come il leader di questi Paesi.

Al di là del suo impatto più immediato, il referendum del 2 ottobre nasconde qualcosa di molto importante, che travalica le frontiere ungheresi. Trattasi della contrapposizione di due idee, di due visioni dell’Europa. Da un lato, c’è chi punta al ritorno delle frontiere nazionali, alla riconquista di tutta la sovranità da parte dei singoli governi nazionali e alla ricerca di soluzioni che non siano il frutto di un compromesso raggiunto fra tutti i paesi membri. Dall’altro, c’è chi auspica un’Europa maggiormente integrata, decisa ad affrontare i problemi insieme e a trovare soluzioni condivise, perché ritiene che, in un mondo globalizzato, l’unione più ampia possibile è necessaria per affrontare i problemi e per poter difendere i propri interessi. 

Tra i fautori di un’Europa delle nazioni troviamo i dirigenti politici dei paesi dell’Europa centrale ed orientale e tutte le forze politiche, dette populiste, che in Occidente si schierano contro l’Unione europea e che ne chiedono la fine, o per lo meno la sua completa trasformazione. Orban è soltanto una delle tanti voci che emergono dal coro delle critiche all’Europa. È una voce che chiede di indebolire l’Unione europea, varando tre drastiche misure: la limitazione dei poteri del Parlamento europeo, il rafforzamento del ruolo del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo e la soppressione della regola della maggioranza qualificata. Tra coloro che mirano ad un’Europa più integrata e unita si distinguono soprattutto i paesi fondatori dell’Unione, anche se le loro opinioni pubbliche sono divise, numerose forze politiche sparse sul continente e tanti intellettuali. Hanno in comune la convinzione che le sfide cui l’Europa deve far fronte, dal terrorismo alla sicurezza delle frontiere, dalla disoccupazione ai migranti, possono essere vinte soltanto insieme. 

Quest’anno le due visioni dell’Europa si sono scontrate nelle urne già tre volte. In aprile, in Olanda, il no ha prevalso con il 61% in un referendum sull’accordo di associazione tra l’Unione europea e l’Ucraina. In giugno, i britannici hanno girato le spalle all’Ue e hanno scelto un futuro autonomo. Otto giorni fa, gli euroscettici ungheresi hanno tentato, senza successo, di inviare a Bruxelles un forte segnale della loro volontà di gestire autonomamente l’immigrazione. E lo scontro si ripeterà più volte l’anno prossimo, in tre successive importanti elezioni. A marzo in Olanda, a maggio in Francia ed a settembre in Germania.

L’Unione europea sta attraversando una fase difficile. I problemi sono tanti e complicati, e le personalità chiamate ad affrontarli non spiccano né per le loro capacità né per il loro carisma. Molti osservatori non esitano a denunciare il pericolo di uno sfaldamento dell’Unione. L’ipotesi non va trascurata. Il pericolo è reale e per tenerlo a distanza bisognerà poter ricorrere almeno a tre ingredienti: alla sopravvivenza dello spirito che ha animato i padri fondatori dell’unione, ad un’azione dell’Ue più vicina alle aspettative e ai bisogni dei cittadini e a una forte volontà politica messa in atto da leader capaci e riconosciuti tali.