Ora sotto accusa è il giudice di Lula

Brasile, la Corte suprema annulla tutte le condanne inflitte all’ex presidente operaio che potrebbe così candidarsi alle Presidenziali del 2022. Intanto il clima politico si polarizza
/ 15.03.2021
di Angela Nocioni

Si spalancano i giochi nella corsa alla presidenza del Brasile. Il prossimo anno si vota. Da tempo si sa che l’attuale presidente di ultradestra, Jair Bolsonaro, si vuole candidare. La novità è che a sfidarlo nel 2022 ci potrà essere il leader della sinistra latinoamericana, il fondatore del Partito dei lavoratori Lula da Silva, risorto dalle sue ceneri per l’ennesima volta nella sua lunga vita politica. A rimettere in pista Lula è l’annullamento, deciso l’8 marzo dal giudice monocratico Edson Fachin al Tribunale supremo, di 4 processi a suo carico per corruzione e riciclaggio di denaro, inclusi i due per i quali fu arrestato e poi estromesso dalle Presidenziali del 2018.

Si è quindi di fatto aperta la campagna elettorale per il voto del 2022, feroce come non mai, in un Paese con un livello di vita media caduto in picchiata negli ultimi anni e devastato dall’epidemia di Covid che ha fatto 300 mila morti accertati e oltre 11 milioni di contagiati. Tutto indica che il ballottaggio delle prossime Presidenziali sarà quello che sarebbe stato nel 2018, se non fosse arrivato per il favoritissimo Lula il mandato d’arresto show con Tv al seguito, firmato dall’allora giudice di primo grado della procura di Curitiba Sérgio Moro. Arresto per il quale non esistevano i presupposti poiché si trattava in realtà di un mandato a comparire davanti al giudice di cui l’ex presidente non era stato nemmeno avvisato. Arresto che lo tolse di mezzo dalla competizione elettorale a tutto beneficio di Bolsonaro che rimase senza rivale e che, una volta eletto, ringraziò il giudice nominandolo superministro della Giustizia.

Acqua ne è passata sotto i ponti da allora. Il Brasile s’è ritrovato un Governo di estrema destra retto dall’alleanza parlamentare tra evangelici, produttori di armi e grandi latifondisti. Moro ha litigato con Bolsonaro, accusandolo di voler proteggere sé e la sua famiglia, e ha lasciato il Governo. Si tiene pronto per capitalizzare lui per sé, da ex giudice sceriffo acclamato dalle folle, il sentimento di antipolitica seminato in questi 15 anni di «Tangentopoli brasiliana». Progetto ambizioso il suo, ma ostacolato dal timore di una sentenza che potrebbe piovergli tra capo e collo nelle prossime settimane.

Il Tribunale supremo deve infatti pronunciarsi a breve su un ricorso dell’ex presidente Lula che contesta a Moro la totale assenza del principio di terzietà del giudice. Non si sa se saranno ammesse come prove le tonnellate di messaggi trafugati dal cellulare di Moro e finiti nel sito d’inchiesta «Intercept Brasil» che rivelano le conversazioni vietate (per legge accusa e giudice giudicante non devono nemmeno parlarsi) tra Moro e il pool dei pm d’accusa del caso Lula. Nei quali i magistrati inquirenti si accordavano con Moro, giudice giudicante, su strategie di indagine, tempi, prove da presentare e si lasciavano andare a commenti da «militanti antilulisti» accaniti, complimentandosi con loro stessi dell’opera di caccia alla «vecchia volpe socialista», con tanti saluti allo stato di diritto. Se Moro venisse riconosciuto non imparziale, tutti i condannati nei suoi processi sulla «Tangentopoli brasiliana», non soltanto Lula, potrebbero ricorrere contro di lui. Si tratta di centinaia di imprenditori e politici finiti in galera. Si smonterebbe un grosso pezzo della «Lava jato», questo il nome della maxi inchiesta sul finanziamento illecito dei partiti da parte di grandi imprese attraverso il pagamento di una percentuale sugli appalti pubblici ottenuti.

Per avere una idea delle dimensioni: solo la procura di Curitiba, quella in cui operava Moro, ha firmato 300 arresti, oltre 278 condanne. Seguendo quel filone l’inchiesta ha varcato i confini brasiliani, fatto cadere diversi Governi e causato l’arresto dei presidenti del Perù, Alejandro Toledo, di Panama, Ricardo Martinelli, e del Salvador, Mauricio Funes. L’ex presidente peruviano Alan García si è sparato alla tempia mentre la polizia gli suonava alla porta per arrestarlo.

Tornato in pista Lula con la sentenza dell’8 marzo – che, senza entrare nel merito dei processi a suo carico, li annulla per difetto di competenza perché riconosce che lui, in quanto ex presidente, andava giudicato a Brasilia, non nella procura di Curitiba – si rimette tutto in discussione negli assetti politici in vista delle Presidenziali. Lula cementa attorno a sé i voti della sinistra e dei progressisti di varie sponde, ma mobilita anche contro di sé tutte le varie destre. È quindi un elemento che ridesta e accentua la polarizzazione del confronto politico. Gli istituti di sondaggio, per ora, danno in un immaginario futuro ballottaggio il consenso al 38 per cento a Bolsonaro e al 50 a Lula.