Ong nel mirino

Immigrazione – Finisce al centro delle polemiche il codice di comportamento approvato dall’Italia per le organizzazioni umanitarie che operano nel Mediterraneo. Da Msf e da altri arriva un secco no
/ 28.08.2017
di Alfredo Venturi

La nave si chiama Iuventa, è un vecchio peschereccio ristrutturato, batte bandiera olandese e fa capo a Jugend Rettet, un’organizzazione giovanile con sede a Berlino. Incrociava nel tratto di mare compreso fra Libia e Sicilia per portare in sicurezza i migranti che sulle loro precarie imbarcazioni lasciano la costa africana alla ricerca di un futuro in Europa. Ma il video circolato nei giorni scorsi offre l’immagine non di un salvataggio ma di un semplice trasbordo: i profughi fatti salire in coperta, i gommoni restituiti agli scafisti, i saluti di questi ultimi mentre si allontanano. E così alla nobile etichetta dell’impegno umanitario viene sovrapposta quella impresentabile del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, peggio, della collusione con i trafficanti di esseri umani. Ma le cose stanno veramente così?

Quelle norme internazionali che vengono sinteticamente chiamate legge del mare impongono il soccorso in caso di vite in pericolo: un incendio a bordo, un’imbarcazione alla deriva, una nave in procinto di affondare, naufraghi fra le onde. Di fronte a simili emergenze qualsiasi natante deve accorrere e soccorrere. Secondo un’interpretazione flessibile, del tutto in sintonia con la percezione della gente di mare, il semplice fatto di accalcarsi su una barca sovraffollata e priva di sistemi di sicurezza configura la condizione di pericolo di fronte alla quale bisogna intervenire. L’equipaggio della Iuventa ha dunque fatto nient’altro che il suo dovere, anche se poteva risparmiarsi di restituire ai trafficanti quei barconi destinati a determinare nuove situazioni di emergenza. Cosa che ovviamente non fa la marina italiana né il Frontex, l’agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere esterne.

Così le Ong finiscono nel mirino, in Italia le procure avviano procedimenti giudiziari mentre il ministro dell’Interno Marco Minniti elabora, d’intesa con le istituzioni dell’Unione Europea, un «Codice di condotta per le Organizzazioni non governative impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare». Le organizzazioni in questione sono nove, e negli ultimi mesi hanno mobilitato nel Canale di Sicilia fino a tredici natanti di varie dimensioni e tonnellaggio. Il Codice prescrive fra l’altro di prendere a bordo agenti di polizia che indagano sulla tratta di esseri umani, vieta lo sconfinamento nelle acque libiche, richiede trasparenza sui finanziamenti, obbliga a trattenere le imbarcazioni usate dagli scafisti e impone di far sempre capo al centro Mrcc di Roma, che coordina i soccorsi in quel tratto di mare.

Alcune Ong, come Medici senza frontiere e Jugend Rettet, rifiutano di firmare il Codice, dichiarando che ospitare a bordo uomini armati contraddice la loro pacifica visione del mondo e assicurando che non per questo cesseranno l’attività. Altre, come Save the children, accettano la regolamentazione. Più tardi a Tripoli il governo di Fayez al-Serraj annuncia che oltre le dodici miglia marine delimitanti le acque territoriali viene creata una zona di ricerca e soccorso nella quale si potrà entrare solo negoziando un’autorizzazione. I guardacoste libici non esitano, in un paio di casi, ad aprire il fuoco per fare allontanare alcune imbarcazioni umanitarie. A questo punto Medici senza frontiere, Save the children e numerose altre Ong dichiarano che sono venute meno le condizioni di sicurezza per gli equipaggi e dunque sospendono ogni attività di soccorso avvertendo che inevitabilmente ci saranno più naufragi e più vittime.

Intanto la polemica infuria. Si accusano l’Europa e l’Italia di volere scoraggiare le navi umanitarie per togliere di mezzo gli scomodi testimoni di uno scandalo, l’intesa con la Libia per limitare il più possibile le partenze dei migranti. È sicuramente vero che questa limitazione è un obiettivo prioritario: in particolare il governo italiano, da anni alle prese con flussi crescenti di profughi e sotto la pressione di un’opinione pubblica esasperata, intende agire proprio per fare argine contro un’ondata umana ormai travolgente. In questo senso le recenti misure hanno funzionato, infatti negli ultimi giorni gli arrivi nei porti italiani si sono ridotti. Il problema è che in attesa di una soluzione radicale, cioè il blocco delle partenze dai paesi subsahariani di origine, respingere i migranti verso i luoghi di raccolta in Libia che hanno appena lasciato significa esporli a una condizione disumana, nell’assenza totale dei diritti individuali, in ambienti dove le privazioni, le violenze, gli stupri sono all’ordine del giorno.

Sospetti e pesanti accuse investono il ruolo della Guardia costiera libica. Secondo Claus-Peter Reisch della Ong tedesca Sea-Eye, è proprio questo reparto navale legato al governo al-Serraj e attrezzato con materiali forniti dall’Italia ad agire d’intesa con i trafficanti. Si parla di un tariffario, tangenti di 50 o 60 mila euro per ogni gommone messo in salvo, e chi non è d’accordo viene invitato ad andarsene. Sul tragico mare che nonostante la flotta dei soccorritori inghiotte ogni anno migliaia di migranti si proiettano le ombre delle lotte di potere in corso nel Paese nordafricano. Di fronte all’attivismo della Guardia costiera il generale Khalifa Haftar, che dalle sue roccheforti in Cirenaica sfida il governo di Tripoli, propone una soluzione drastica ma piuttosto costosa. È ispirata all’intesa fra Unione Europea e Turchia con cui fu prosciugata la rotta balcanica. Datemi venti miliardi di euro, dice Haftar, e bloccherò i flussi migratori fra la Libia e l’Europa. Il generale non precisa se la cifra sia negoziabile.