In attesa che gli azzeccagarbugli sbroglino la matassa dei voti che prima o poi decreteranno il nome del nuovo presidente degli Stati Uniti, è già possibile un bilancio provvisorio degli effetti geopolitici delle elezioni. Sul fronte interno e su quello esterno. Per ordine.
La superpotenza si conferma dilaniata al suo interno da una contrapposizione mai così aspra, almeno nel secondo dopoguerra. Dipinta dalla cartografia elettorale, che scerne il blu democratico (Biden) dal rosso repubblicano (Trump) nell’insieme dei 50 Stati. Ma il voto non fa che riflettere una spaccatura storica, di fondo, fra le coste atlantica e pacifica e le Americhe di mezzo. Le prime due in condizione post-storica, stanche d’impero, refrattarie alla gloria, indisponibili alla guerra. Edoniste non reaganiane. Simboleggiate da California e New York. Il cuore della nazione è invece giovane e violento, l’opposto delle coste. Con una determinante componente germano-americana. Sono i discendenti degli immigrati tedeschi, particolarmente numerosi nel Midwest, specie attorno ai Grandi Laghi, ad aver inclinato la bilancia elettorale dal lato di Biden. Ed è contro questa sconfitta – almeno stando ai dati disponibili – che si è per ora infranta la macchina lanciata da Trump alla riconferma da presidente.
Nella fly-over America, che noi europei tendiamo appunto a sorvolare trascorrendo da una costa all’altra, si decide e si deciderà in futuro l’equilibrio politico del paese. È la parte più sensibile alla crisi economica, in parte strutturale – si pensi al Rust Belt, l’ex cuore industriale della superpotenza, oggi semidistrutto più che arrugginito – e più avversa alla globalizzazione, quindi alla Cina «rubalavoro». Trumpiani, in linea di massima, anche se non nella misura sufficiente per dargli la maggioranza del voto popolare nel 2016 come nel 2020.
Altro fattore decisivo, gli ispanici. Che però non sono blocco. Ad esempio, in Florida hanno dato la vittoria a Trump, che si offriva loro come argine contro i «comunisti» (per loro castristi) che avrebbero sequestrato il Partito democratico. Altri, specie in Arizona, dove prevalgono i chicanos (già messicani), si sono divisi più nettamente fra i due candidati. La minoranza nera, molto mediatizzata negli ultimi mesi per gli efferati omicidi di polizia ai danni di alcuni suoi membri, si conferma più visibile che decisiva. Anche per il numero non formidabile dei suoi componenti. In gran parte comunque schierati con Biden.
Ma gli effetti più visibili riguardano il fronte esterno. I vincitori, finora, di questa elezione sono i nemici dell’America. Cinesi, russi, iraniani e quanti altri sono finiti in questi anni nel mirino statunitense, non solo metaforicamente. Il caos dello spoglio infinito e revocabile getta più di un’ombra sul funzionamento della democrazia americana. Una macchia sul già discutibile soft power a stelle e strisce. La gioia maligna è il sentimento prevalente nelle capitali «nemiche».
Più rilevante il rimbalzo sugli alleati, europei ed asiatici. Nel momento in cui Washington li chiama a raccolta per schierarli nella campagna, per ora non bellica, contro la Cina, costoro cominciano a chiedersi fino a che punto la leadership americana sia credibile, coerente, affidabile. Impressionanti le prime reazione tedesche. La ministra della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer, cristiano-democratica già candidata dalla Merkel per succederle, ha parlato di «situazione esplosiva» in America. Il collega delle Finanze e vicecancelliere, il socialdemocratico Olaf Scholz, ha messo in dubbio la credibilità dei risultati finora emersi.
Molto preoccupati giapponesi, sudcoreani, indiani, australiani e altri potenziali soci della crociata anticinese. Per loro la partita non è solo economica, ma anzitutto di sicurezza. Le dispute intestine agli apparati americani e l’incertezza sul prossimo comandante in capo non promettono bene.
L’America ha le risorse per rimettere in ordine la casa. Ma non sarà operazione né breve né indolore. Nel frattempo, dovremo abituarci tutti a vivere un poco più pericolosamente.