Le forme e le apparenze sono chiare: Xi Jinping esce trionfatore dal XIX Congresso del Partito Comunista Cinese. Ne esce come leader assoluto, avendo iscritto il suo pensiero nello statuto stesso del massimo organo politico e istituzionale dell’Impero del Centro, al medesimo livello del fondatore della Repubblica Popolare Cinese, Mao Zedong. Un tempo si agitava il libretto rosso di Mao, adesso ci si deve orientare sul cosiddetto «Pensiero di Xi Jinping sul Socialismo con Caratteristiche Cinesi per una Nuova Era». Vasto programma.
Ma le cose stanno davvero così? Quanto comanda davvero Xi? Quanto fedele gli è il partito, quanti nemici vi si annidano dentro o operano in altre strutture dello Stato? Se osserviamo il profilo del vertice battezzato dal Congresso, notiamo che se Xi prima aveva nel Comitato Permanente dell’Ufficio Politico almeno tre personalità non allineate se non avverse, oggi tutti gli sono fedeli. O sono considerati tali. Quindi per i prossimi cinque anni – ma c’è chi pensa che il presidente e segretario del partito, contravvenendo alla prassi consolidata, voglia prolungare il suo potere per almeno un altro quinquennio, se non a vita – Xi non dovrebbe soffrire attacchi diretti alla sua leadership.
Eppure proprio durante i lavori della massima assise del Paese lo stesso Xi ha lasciato che filtrasse ufficialmente la voce di un tentativo di colpo di Stato che sarebbe stato represso. Il riferimento è probabilmente agli amici di Bo Xilai, suo potente avversario politico da tempo messo fuori gioco, che avrebbero cospirato contro di lui. E il fatto che la conferma sia data dalla stessa leadership comunista rivela che qualcosa di molto concreto c’è stato, e forse potrebbe tornare a manifestarsi. La personalità assertiva e ingombrante del presidente/segretario generale dà fastidio a molti. In ballo è soprattutto il controllo delle grandi aziende pubbliche di Stato, che tuttora rappresentano il cuore dell’economia nazionale.
Tali aziende di Stato (Soe – State owned enterprises – nel gergo internazionale) sono dei colossi di fatto controllati dalla nomenklatura del partito, gestiti secondo criteri arbitrari, spesso antieconomici e sempre corruttivi. Xi si è fatto fama di campione della lotta alla corruzione, che in termini politici si traduce in battaglia per estirpare le radici dei gruppi avversari dal controllo delle aziende e delle istituzioni pubbliche, Forze armate incluse. Qui si gioca tutto. Ma non è ben chiaro quale sia il suo piano e quali possibilità di successo abbia.
Una forma di autoprivatizzazione delle Soe di stile postsovietico finirebbe per riprodurre in Cina un’oligarchia del genere di quella che si è arricchita spaventosamente nella Russia della fine dello scorso secolo, profittando dello smantellamento dell’Urss e delle sue enormi aziende di Stato (di partito). Il rischio che tra questi oligarchi si formi un nuovo strato di oppositori a Xi, capaci di tramare nell’ombra contro di lui e dotati di formidabili patrimoni personali con cui comprare alleati e convertire avversari, è fin troppo evidente. Un’alternativa potrebbe consistere nell’affidare le Soe, almeno per un periodo transitorio, a una burocrazia di controllo, che metta in opera le privatizzazioni, naturalmente limitate e orientate. Con questo torneremmo al punto di partenza, solo aggiungendo un’altra burocrazia corrotta a quelle già esistenti. E potentissime.
Xi non sembra ancora avere operato una scelta, né individuato una terza via, meno sgradevole, rispetto alle due alternative accennate. Nel frattempo, malgrado la sua elevazione al rango di grande timoniere, le sfide al suo potere non cesseranno. Secondo alcune informazioni lasciate circolare a Pechino, Xi avrebbe già subìto diversi tentativi di attentato. Di qui anche la fretta di affermarsi come figura quasi sacrale al di sopra della massa degli altri dirigenti.
Il contesto geopolitico internazionale non è peraltro tranquillizzante. La mina nordcoreana è tutt’altro che disinnescata. In caso di conflitto fra Stati Uniti e Corea del Nord la Cina sarebbe immediatamente toccata. Sia per le ondate di profughi coreani diretti verso le aree limitrofe cinesi, dove è insediata una notevole minoranza di connazionali, sia per il rischio, in caso di attacco atomico americano, di gravi conseguenze se non altro ambientali per il Nord della Cina, sia soprattutto per la probabilità di avere a che fare con i militari americani alla propria frontiera nazionale, se il regime di Pyongyang dovesse scomparire.
Nella regione, poi, i nemici storici della Cina stanno riarmando. L’India, grazie anche a nuove forniture americane, potrebbe riaccendere antichi e recenti focolai bellici lungo le contestate frontiere di montagna. Il Giappone ha appena trionfalmente rieletto il nazionalista Abe alla carica di primo ministro. Garanzia di un ulteriore riarmo e forse di una reinterpretazione o riscrittura della Costituzione che possa favorire l’impiego più disinvolto delle sue Forze armate, naturalmente in chiave anticinese, per esempio in risposta al lancio di un missile nordcoreano che colpisse il territorio nipponico.
Insomma, Xi ha vinto il Congresso, senza dubbio. Ma sotto le foglie si agitano nemici nuovi e vecchi. Come il suo novantunenne predecessore Jiang Zemin, che durante il lungo discorso di Xi sbadigliava e guardava l’orologio, a ostentare il suo fastidio per il successore. Senilità o insofferenza? Più probabile la seconda ipotesi. E quel che il vecchio Jiang ostentava, altri dirigenti probabilmente condividevano. In silenzio.