Il 21 dicembre si svolgono in Catalogna le elezioni regionali destinate a varare il nuovo parlamento e quindi la Generalitat, ovvero il governo della più importante comunità autonoma della Spagna, centrata su Barcellona. Il voto non potrebbe avvenire in condizioni peggiori. Il governo di Madrid, guidato da Mariano Rajoy, esponente del Partito popolare (centro-destra), ha infatti commissariato la regione ribelle, il cui parlamento aveva proclamato a stretta maggioranza l’indipendenza, violando così la costituzione spagnola. Ciò in base all’esito del referendum – anch’esso illegale secondo Madrid – con cui il 1. ottobre il 90% dei votanti (43% del corpo elettorale) si era espresso per la secessione. Il commissariamento della Catalogna ha quindi bloccato l’indipendenza, portato all’arresto dei principali esponenti indipendentisti catalani e all’autoesilio dell’ultimo presidente della Generalitat, Carles Puigdemont, attualmente in Belgio a cercare l’appoggio – che non ha e non avrà – delle istituzioni comunitarie e di alcuni paesi europei.
Il tutto in un clima di forte tensione, con l’annunciato cambio di sede delle principali banche e aziende catalane, oltre alle continue manifestazioni di piazza dei fronti separatista e spagnolista, che dividono circa a metà l’opinione pubblica catalana. Il risultato del 21 dicembre forse non cambierà di molto i rapporti di forza all’interno del parlamento catalano, anche se la Esquerra Republicana, partito storico del catalanismo, dovrebbe superare ampiamente la formazione indipendentista di centro-destra guidata (dall’estero) da Puigdemont, mentre gli estremisti di sinistra della Cup, anch’essi secessionisti, potrebbero avvicinarsi al 10%. Alla fine gli indipendentisti potrebbero avere una minima maggioranza in parlamento, oppure perderla a favore degli spagnolisti, tra i quali, oltre al Ppe, si segnala la crescente influenza di Ciudadanos (centristi catalani ma filo-Madrid). Insomma, quasi un nulla di fatto.
In ogni caso, la ferita resta aperta e non esistono ricette per curarla efficacemente e rapidamente. Giacché non si tratta affatto di una disputa economica, quanto di un conflitto identitario. È ormai oltre un secolo che in un modo o nell’altro i catalani hanno dato vita a movimenti prima regionalisti, poi fortemente autonomisti, infine separatisti, repressi con particolare vigore nel periodo di Franco, in nome della loro diversità nazionale. Oggi il secessionismo illegale – insomma, la rivoluzione – proposto con notevole dilettantismo da Puigdemont e associati ha rafforzato coloro che a Madrid vorrebbero dare una stretta agli autonomismi che storicamente organizzano, dal 1978, i delicati equilibri di uno Stato con troppe nazionalità (catalani, baschi, galiziani su tutti).
Le cancellerie europee sono con Madrid perché temono l’effetto domino. Se la Catalogna parte, questo potrebbe dare nuova linfa ai secessionismi espliciti, come il fiammingo o lo scozzese, ma anche a quelli latenti, come il bavarese o il veneto. Insomma, il vaso di Pandora si spaccherebbe in mille pezzi.
Bisogna anche considerare che la Catalogna dei catalanisti va molto al di là di quella riconosciuta da Madrid e inglobata quale comunità autonoma nel suo spazio sovrano. In molti catalani, specie nazionalisti di sinistra, vive la rappresentazione geopolitica del Pi de les Tres Branques, marchio (geo)grafico dei «paesi catalani» («països catalans»), i quali ricamano nei rispettivi stendardi e gonfaloni variazioni araldiche della senyera real, bandiera dei re d’Aragona e conti di Barcellona. Il «pino a tre rami» – ma la ramificazione è assai più folta – comprende lo storico Principato di Barcellona, composto dalla Comunità autonoma di Catalogna (già autoproclamata repubblica), dalla quasi totalità del dipartimento francese dei Pirenei Orientali (la Catalogna Nord dei catalanisti), dalle Baleari e dalla Comunità Valenzana. Inoltre, la Frangia d’Aragona; il Principato di Andorra, indipendente; El Carxe, nella Regione di Murcia; l’Alguer, ovvero l’italiana Alghero, nel Nord-Ovest della Sardegna, dove aveva sede un distaccamento della Generalitat, fatto sgomberare dalla Spagna.
Spagna, Francia, Andorra e Italia: quattro Stati europei coinvolti nel pancatalanismo risorgente. Non solo spiritualmente. Un drappello di sardisti filocatalani è sbarcato a Barcellona in soccorso dei confratelli durante il referendum del 1. ottobre. I nord-catalanisti di Perpignano, dopo aver stampato milioni di schede referendarie trasportate clandestinamente oltre i Pirenei, hanno offerto senza successo una magnifica villa all’eventuale «governo in esilio», rifugio per il «loro» presidente Carles Puigdemont. Né sarà sfuggito alle autorità di Parigi come durante gli scontri che il 26 ottobre hanno accompagnato la visita di Emmanuel Macron nella Guyana francese in subbuglio alcuni autonomisti franco-amazzonici sventolassero a Caienna la bandiera catalana. Prodigi dell’interconnettività no-global. Troppo spesso declassata a folklore, salvo poi sorprendersi delle sue eruzioni.
Ecco perché il caso catalano, lungi dal ridursi a disputa intraspagnola, è destinato a ripercuotersi sugli equilibri continentali in una fase in cui la stessa Germania, centro geoeconomico del continente, vive una crisi politica senza precedenti. Parafrasando un motto antico: «Oggi in Spagna, domani in Europa»?