Il mercato comincia quando comincia la notte. La notte di quelli che tirano tardi, la notte dei tassisti, dei camerieri, degli inservienti dei locali pubblici, dei poliziotti. La notte delle spogliarelliste e delle prostitute. La notte di coloro che di giorno dormono, o hanno altro da fare. È un mercato antico, quello che a Calcutta comincia quando la notte è più giovane, il primo ad aprire i battenti. Un mercato dove si vendono sari e abiti usati: un tempo era il mercato delle prostitute di Sonagochi, che potevano fare shopping per se stesse e per i propri figli senza doversi svegliare troppo presto la mattina. Adesso è un formicaio popolato di uomini e donne di ogni genere che vendono bracciate e bracciate di stoffe più che altro a coloro che comprano in blocco per rivendere poi ai fabbricanti di kanta: coperte, scialli, borse o copricuscini realizzati unendo vecchi sari e cucendo poi il tutto con delle file fitte di punti regolari. Una volta era un modo casalingo per riciclare gli abiti: adesso sono diventati una moda, e uno degli impieghi più comuni di molte donne che cercano di guadagnare qualche soldo lavorando da casa.
Ai bordi del mercato, sotto una lampadina fioca, crocchi di persone si ristorano con una tazza di tè o caffè caldi. Alle cinque, è tutto finito mentre qualche chilometro più in là, all’ombra dell’Howrah Bridge, finisce la notte dei fiorai e dei sacerdoti induisti. Nei templi cominciano a risuonare in sordina preghiere e campanelle, mentre sul selciato sotto al ponte, sempre bagnato a quest’ora, montagne e montagne di fiori colorati appaiono come d’incanto. Rose rosse con il gambo, con la corolla soltanto, a ghirlanda. Gelsomini di ogni genere cuciti in lunghe stringhe profumate, lunghe collane di tagete in ogni sfumatura possibile dal giallo all’arancio bruciato. Contro il cielo grigio e luminoso della mattina i colori e i profumi esplodono tra le grida dei venditori che chiamano i clienti, che si affannano a prendere gli ordini per decorare templi, per inghirlandare sale da cerimonie, per fornire addobbi ad alberghi e ristoranti. Quando il sole passerà dal rosso dell’alba a essere una palla giallo pallido contro l’orizzonte, troppo calda per far sopravvivere corolle e foglie, il mercato chiuderà i battenti e i fiori avanzati saranno trasformati in petali: mucchi di petali da vendere a peso a qualche centesimo al chilo.
Nello stesso momento chiuderanno i battenti anche i mercati di verdure all’ingrosso dove per tutta la notte si sono vendute all’asta casse di cavolfiori o caschi di banane, ceste di cipolle e grosse balle di spinaci. La luce del primo mattino di Bara Bazaar assomiglia all’alba dopo una battaglia, un’alba che illumina montagne e montagne di scarti di verdure e frutta, il selciato praticamente scomparso sotto a una coltre viscida e multicolore in cui si cammina immersi fino alla caviglia. Venditori e compratori, facchini e battitori d’asta si ritrovano stanchi all’angolo della strada a bere una tazza di tè e fare colazione attorno ai banchetti di cibo di strada che cominciano ad aprire i battenti. Ai bordi del mercato del quartiere cinese di Calcutta si vendono momo (una specie di ravioli al vapore ripieni di maiale o pollo), zuppe calde o piatti di spaghetti di riso, quasi dappertutto si preparano roti (un pane piatto senza lievito) e ceci in salsa piccante, o patate speziate.
Col passare delle ore scompaiono i venditori all’ingrosso, i mercati al dettaglio e le bancarelle itineranti cominciano la loro giornata, ma i chioschi del tè o del cibo di strada non chiudono mai: vendono cibi diversi a diverse ore del giorno, ma sono sempre là ad accogliere lavoratori stanchi, passanti, scolari, studenti o semplici buongustai. All’ora di pranzo si vedono file e file di persone sedute su panche di legno o su muretti di cemento a consumare un pasto caldo. Non uno snack, ma vero e proprio cibo nutriente e robusto, con ricette trasmesse di generazione in generazione da un venditore all’altro: come il korma, uno spezzatino di carne piccante. O il kachori che vendono a Calcutta accompagnato da puri (o luchi, in bengali), patate e verdure cotte in casseruola. O gli shami kebab venduti a Lucknow vicino alla moschea della città vecchia, preparati con carne macinata finissima e poi impastata per ore e ore a mano con le spezie per essere infine passata sulla carbonella. E il biryani (riso, carne, yoghurt e spezie cotti assieme) di Hyderabad o della vecchia Delhi, venduto nella interminabile fila di bottegucce attorno alla Jama Masjid.
Gli snack servono da merenda per i bambini, da spuntino per le signore che fanno shopping o per gli studenti. Viene preparato a vista, davanti ai tuoi occhi. I samosa si impastano, si riempiono e si friggono in enormi padelle, le aloo tikki (polpette di patate e spezie) si cuociono su grosse piastre che servono anche a preparare al momento un piatto di chowmin, gli spaghetti cinesi. Ci sono i gol-guppa, cialde rotonde riempite al momento di purè e acqua speziata, i kathi roll (piadine riempite di carne o uova o verdure cotte sulla piastra e arrotolate al momento) oppure i jhalmuri (riso soffiato condito con limone, peperoncino e spezie e servito in un cartoccio di carta di giornale. E poi ci sono i venditori di kebab con i fuochi di carbone accesi all’angolo della strada, e i jallebi che si mangiano per colazione: arabeschi rossi e traslucidi fritti e immersi nello sciroppo di zucchero. E le chaat: patate, ceci, cipolla e quant’altro ricoperte da una salsa di tamarindo e yoghurt. Impossibile censire tutte le varietà di delizie vendute per strada.
Guardare, assaggiare, farsi guidare dai profumi è una delle esperienze più incredibili dell’India: il cibo di strada è anche cibo per l’anima e per i ricordi d’infanzia. E non è mai buono come per strada, nonostante la polvere e le condizioni igieniche precarie. L’odore delle spezie delle centinaia di migliaia di piccoli chioschi lungo la strada, di fornelli di creta arrangiati ovunque ci fosse un metro quadrato disponibile, il profumo di tutti i cibi cotti e venduti per strada, quell’odore misto all’odore di umidità, di immondizia e di incenso bruciato un po’ dovunque era, una volta, l’odore dell’India.
Una volta perché, almeno nelle grandi città come Delhi e Bombay, chioschi e chioschetti sono stati sloggiati dalle vie delle città in nome di decoro e dignità: nei nuovi quartieri dove vive la upper middle class non sono più ammessi banchetti improvvisati, e diventa sempre più raro sentire il familiare richiamo, alla mattina presto, dei venditori ambulanti o del lattaio. Il richiamo dei piccolissimi commercianti, quelli che vanno in giro con i bidoni del latte, i carretti di verdura o le sporte del pesce e che ti svegliano alla mattina al grido di «maach» (pesce), «Duud» (latte) o sgranando un proustiano rosario composto dai nomi delle verdure che trascinano sul loro carretto. Nelle città vecchie però, nelle città di provincia, in quelle zone dell’India che non sono ancora state toccate e in qualche modo cambiate dalla modernità o che resistono strenuamente a quest’ultima, il cibo di strada resiste ancora. Perché non è semplicemente cibo: è una filosofia, uno stile di vita, nonché l’unico mezzo di sostentamento per i milioni di persone che ogni giorno devono mettere assieme il pranzo con la cena e non possono permettersi di andare al ristorante.
Camminare per Old Delhi, per le strade di Calcutta o di Amritsar, sui ghat di Benares o sulla spiaggia di Bombay significa essere assaliti da una sinfonia di profumi. Ogni città ha i suoi cibi di strada che la distinguono, ogni stagione è caratterizzata da un particolare cibo o bevanda disponibile soltanto in quel particolare periodo dell’anno. Tra poco ad esempio, appena l’inverno prenderà piede, a Delhi e a Benares appariranno i venditori di un particolare dessert, il più romantico di tutti: una spuma di latte guarnita di mandorle e pistacchi che dicono bisogna esporre tutta la notte alla brina e alla nebbia per ottenere la consistenza aerea che lo caratterizza. Il cibo di strada fa sopravvivere piccoli impiegati, lavoratori dei negozi e conducenti di risciò e di taxi, ma è amato da chiunque e ci sono venditori famosi i cui carretti sono affollatissimi.
C’è chi organizza veri e propri tour gastronomici dei migliori chioschi di Delhi o Calcutta, e c’è perfino un’associazione, la Nasvi, che cerca di proteggere i dieci milioni di venditori che vivono con la costante minaccia di essere scacciati dalla strada in nome del progresso e dell’estetica dei luoghi e che svolge un servizio indispensabile per la comunità generando reddito, creando posti di lavoro pur guadagnando, alla fine della giornata, cifre ridicole: un centinaio di rupie al giorno, quando va tutto bene. Mentre un chilo di cipolle, nell’India della modernità, costa circa ottanta rupie. Nessuno si è ancora organizzato, invece, per proteggere i proprietari delle bancarelle che decorano più o meno tutte le strade indiane e che vendono le cose più disparate. Monodose, in porzione singola: una bustina di shampoo, una sigaretta, cinquanta grammi di youghurt o una fettina da trenta grammi di formaggio. Sono gli unici negozi in cui tre quarti della più grande democrazia del mondo può permettersi di fare acquisti.
A Delhi come altrove, nei quartieri residenziali destinati alla borghesia medio-alta, i venditori di strada e i piccolissimi esercizi vengono inesorabilmente sloggiati a suon di firme raccolte dai proprietari degli appartamenti che giudicano ormai poco decoroso trovare all’angolo della strada l’omino che frigge snacks circondato da un capannello di clienti o il fruttivendolo con la sua bancarella di verdura. Le riforme economiche stanno cambiando e cambieranno in modo radicale il tessuto sociale del Paese e molto presto, forse, anche i mercati notturni e le sue creature, così come il cibo venduto allegramente all’angolo della strada in barba a ogni norma cosiddetta igienica saranno soltanto un ricordo. Come l’odore dell’India.