Il Natale è ormai diventato un bersaglio del furore jihadista. I terroristi dell’islamismo più estremo lo hanno colpito due volte. Due anni or sono un camion scagliato sulla folla che gremiva un mercatino natalizio a Berlino provocò il bilancio di dodici morti e cinquantadue feriti. Quest’anno la scena si è spostata a Strasburgo, dove i passanti che si aggiravano fra le tradizionali bancarelle sono stati presi di mira da un uomo che sparava all’impazzata: cinque morti e undici feriti. I due responsabili non sono sopravvissuti a lungo alle loro imprese: Anis Amri, 24 anni, è stato ucciso tre giorni dopo la strage di Berlino dalla polizia italiana a Sesto San Giovanni dove cercava rifugio: Cherif Chakatt, 29 anni, è stato colpito a morte nella stessa Strasburgo a quarantotto ore dalla micidiale sparatoria, mentre resisteva con le armi in pugno all’assedio degli agenti francesi.
Oltre alla fede religiosa, l’islamismo integralista e intransigente dei salafiti, alle radici tunisine (ma Cherif era nato e cresciuto in Francia) e alla militanza jihadista, li univa un’altra caratteristica: avevano entrambi precedenti di criminalità comune. I servizi d’informazione di molti paesi confermano la tendenza: capita spesso che giovani musulmani, spesso provenienti da famiglie da tempo presenti in Europa, di solito residenti nelle periferie degradate delle grandi città, finiscono in carcere per reati vari. Qui avviene la svolta: incontrano in cella il mentore che agendo sulla fragilità psicologica e sulla rabbia accumulata nel difficile rapporto con la società, fa loro intravvedere la possibilità del riscatto attraverso la «guerra santa». È la cosiddetta radicalizzazione. Quei giovani vengono convinti a colpire l’Occidente infedele, colpire con durezza e determinazione.
E quale migliore campo d’azione dei mercatini di Natale, che si offrono all’odio estremista con la coincidenza di due elementi altrettanto significativi: da una parte il simbolo della religiosità cristiana, dall’altra quello del consumismo che le festività natalizie esaltano nelle nostre città. Insomma, il nemico è la grande festa pagana prima ancora che cristiana, considerata ugualmente empia sul piano della religione e su quello del costume. E così lupi solitari come Amri e Chakatt, al termine della loro conversione da delinquenti comuni a soldati della guerra santa, si avventano sugli infedeli e sulla società opulenta. Non certo a caso arriva immediata, come subito dopo la strage di Strasburgo, la rivendicazione da parte di ciò che resta dell’Isis dopo le sconfitte sul campo in Medio Oriente: Chakatt, fanno sapere i comunicatori dello Stato islamico, era uno dei nostri.
Naturalmente non bisogna commettere l’errore, comune a molti esagitati della xenofobia europea, d’identificare la violenza predicata dai salafiti, e sanguinosamente messa in atto dai vari Amri e Chakatt, con l’islam in quanto tale. L’atteggiamento della galassia musulmana nei confronti del Natale riflette la varietà delle visioni e delle interpretazioni coraniche. Pregiudizialmente ostili sono le ali più integraliste, e soprattutto chi sfrutta, come al-Qaeda o l’Isis, l’intransigenza religiosa per incitare alla violenza contro gli infedeli, siano essi cristiani o musulmani sciiti. Il salafismo, che considera peccato mortale non solo celebrare la festività ma anche semplicemente rivolgere l’augurio di Buon Natale, finisce con il servire una finalità strategica e politica: si tratta di aizzare la comunità islamica contro l’Occidente, la laicità, la modernità.
A parte la degenerazione terroristica, si arriva a situazioni antistoriche come nella provincia indonesiana di Aceh, retta in regime d’autonomia da una leadership musulmana fortemente integralista che ha introdotto la sharia, la legge islamica: da quelle parti chiunque si lasci sfuggire l’augurio di Buon Natale, e persino di Buon Anno, rischia l’arresto. Il fanatismo coinvolge infatti anche il Capodanno fra le empietà occidentali. Proprio contro un pubblico internazionale che festeggiava l’anno nuovo era diretto il cruento attacco sferrato la notte del 1. gennaio 2017 in una discoteca di Istanbul: una quarantina di morti, una settantina di feriti, la puntuale rivendicazione dell’Isis. In quel caso si volle colpire la laicizzazione della società, palesemente tentata dagli usi occidentali e dunque avversa alle pulsioni integraliste e neo-ottomane sempre più evidenti nell’inquieta Turchia di Erdogan.
L’offensiva salafita investe l’intero mondo islamico, dove fa proseliti ma incontra anche tenaci resistenze. In Egitto Ahmed al-Tayeb, grande imam di al-Azhar cioè della più prestigiosa istituzione religiosa e culturale dell’islam sunnita, non esita ad augurare Buon Natale ai concittadini di religione copta. Secondo i salafiti questo gesto fa del grande imam un traditore e un apostata. Al-Tayeb è impopolare presso i fanatici anche perché cerca buoni rapporti con i detestati sciiti. Sul fronte opposto il capo del salafismo egiziano, Hisham el-Ashry, dichiara il proposito di indurre i copti alla conversione. Con quali mezzi non è dato sapere, ma è un fatto che l’antica comunità cristiana d’Egitto vive giorni difficili, sia pure confortata dall’atteggiamento amichevole di molti vicini musulmani. Che arrivano talvolta a partecipare alla festività cristiana e perfino alle funzioni religiose. Bisogna considerare che Issa (Gesù in arabo), di cui il Natale celebra la nascita, è nella teologia musulmana un profeta di notevole rilevanza frequentemente citato dal Corano.
Un centinaio di versetti del nostro libro sacro, ricorda Bouchaib al-Tanji presidente della lega islamica del Veneto, ci parlano di Gesù e di sua madre Maria: «dunque non ci dispiace affatto vedere un presepe o ascoltare gli inni del Natale». Al-Tanji risponde a quei capi d’istituto che hanno rinunciato ad allestire il presepe nella loro scuola proprio per non offendere la comunità islamica, ma anche a quei politici che approfittano della circostanza per inveire contro la presunta islamizzazione dell’Italia e dell’Europa. Di fatto trasformando il presepe, la difesa del presepe, in uno strumento di propaganda anti-musulmani e anti-immigrati. Secondo al-Tanji è necessario che le diverse comunità interagiscano per fare chiarezza sulla loro inevitabile coesistenza, respingendo sia l’estremismo religioso che genera violenza, sia quello politico che unendo questa sorta di crociata all’allarme per l’«invasione» dei derelitti, alimenta la xenofobia.
In molti paesi musulmani è possibile festeggiare il Natale e le altre feste cristiane soltanto in privato. Per esempio nel Brunei, dove la legge può infliggere cinque anni di carcere a chi celebri in pubblico qualsiasi ricorrenza non islamica. In Somalia, dove pure è in vigore la sharia, c’è assoluto divieto di addobbi natalizi, anche per evitare, spiega il sindaco di Mogadiscio Yussuf Hussein, di fornire obiettivi ai terroristi di al-Shabaab, l’organizzazione terroristica legata ad al-Qaeda. Gli stranieri e i cristiani del posto possono festeggiare in casa propria, o nella sede vigilatissima delle Nazioni Unite. Può sembrare paradossale, ma proprio nello Stato teocratico dell’Iran, retto da una casta sacerdotale d’obbedienza sciita, non ci sono ostacoli alla pubblica celebrazione del Natale da parte della minoranza cristiana. Ben diversa la situazione in Arabia Saudita, che ospita una comunità di immigrati cristiani per i quali il Natale è un evento rigorosamente privato.