Oksana Balandina si è sposata a 23 anni e, nonostante la guerra, è stato un matrimonio dove non è mancato niente. Lei indossava un lungo abito e ha volteggiato nel valzer nuziale tra le braccia del marito Viktor. La cerimonia si è svolta all’ospedale di Leopoli, dove Oksana sta facendo un corso di riabilitazione per imparare a camminare sulle sue nuove protesi: ha perso entrambe le gambe e quattro dita di una mano imbattendosi in una mina vicino a casa, a Lisichansk, nel Donbass. «L’avevo vista, mi ero girata verso Viktor per dirgli “tesoro, guarda cosa ho trovato” e un secondo dopo ho capito che stavo volando», racconta. Il marito l’ha vista saltare in aria, l’ha raccolta, l’ha scossa: «Non si muoveva e io non riuscivo più a respirare». La coppia ha deciso di sposarsi appena Oksana è stata dichiarata fuori pericolo.
Tata Kepler ogni giorno va nei villaggi nella zona di Kiev. Sutura ferite, distribuisce pastiglie, fa ecografie a tiroidi ingrossate dalle polveri di Chernobyl e a pance di donne incinte che sono rimaste per settimane sotto occupazione russa, senza possibilità di visitare un medico. Misura la pressione a un uomo che per tre settimane si è nascosto in una cantina, dopo tre ictus. Tata è una medica volontaria dell’esercito ucraino e insieme alla sua squadra va nelle zone di guerra, o dove la guerra è appena finita. Ogni giorno cammina in mezzo alle bombe e sulle rovine per soccorrere la popolazione civile. Prima della guerra si occupava di arte e ora il suo profilo Instagram @use_your_name è sia una pagina per raccogliere aiuti e donazioni, sia uno straordinario documento di testimonianza della guerra: quasi in ogni villaggio gli abitanti raccontano storie di violenze, torture, massacri, di resistenza e di disperazione.
Ekaterina Cherepakha sta facendo un lavoro faticoso: insieme alle collaboratrici dell’associazione che presiede, La strada, cerca di aiutare le vittime degli stupri nei territori occupati. Ha fatto una relazione sui crimini di guerra a sfondo sessuale commessi dall’esercito russo davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu: «Stupri di gruppo, stupri ripetuti, stupri commessi davanti ai familiari, con la minaccia di uccidere i figli». Non si tratta di episodi isolati, ma di un fenomeno talmente diffuso da far pensare alla commissaria per i diritti umani del parlamento ucraino, Lyudmila Denisova, che si tratti di una strategia precisa e consapevole per terrorizzare la popolazione, «un ordine dato da Putin in persona». A Bucha e Borodyanka i casi di stupro sono decine, alcune vittime sono minorenni, alcune sono rimaste incinte. «Tutte hanno urgente bisogno di assistenza psicologica», dice Cherepakha. Solo poche accettano di testimoniare davanti ai giudici, dice Denisova, che sta raccogliendo testimonianze per il tribunale che dovrà processare, prima o poi, i criminali di questo conflitto.
La guerra non ha un volto di donna, scriveva la premio Nobel bielorussa Svetlana Aleksievič, ma la guerra in Ucraina è composta di tanti volti femminili. Quelli delle ragazze che si arruolano nell’esercito ucraino e delle volontarie che aiutano le vittime, delle profughe che scappano con figli e animali dalle città bombardate e delle contadine che restano a piantare patate perché bisognerà dare da mangiare a un paese in guerra. Donne infinitamente stanche, come la vicepremier Iryna Vereshchuk, che ogni giorno negozia corridoi umanitari per la fuga dei civili dalle zone di conflitto. Donne disperate, come Kateryna Prokopenko e le sue compagne, mogli dei militari del battaglione Azov, che stanno lanciando appelli internazionali per salvare i loro mariti dai bunker di Mariupol. Donne diventate simbolo della guerra loro malgrado, come Marianna Vyshemirskaya, la blogger incinta fotografata mentre fugge terrorizzata dall’ospedale di Mariupol (e costretta poi davanti alle telecamere russe ad accusare dei bombardamenti l’aviazione Ucraina). Donne cadute sotto le bombe, come la giornalista Valeria Hlodan, uccisa da un missile nel suo appartamento di Odessa, insieme alla suocera e alla figlia di appena tre mesi. Tre generazioni della stessa famiglia, cancellate alla vigilia della Pasqua ortodossa.
Ma ci sono donne anche dall’altra parte della linea del fronte, divise da quella guerra civile non dichiarata che sta dilaniando la Russia. Da un lato della barricata ci sono Marina Ovsyannikova, la redattrice della tv russa apparsa in diretta con il cartello «No alla guerra», e la blogger Veronika Belozerkovskaya, la prima russa incriminata in base alla nuova legge sul «discredito delle forze armate» per aver denunciato con violenza l’invasione russa. Le attrici Liya Akhedzhakova, costretta a fuggire dal suo paese per aver versato soldi alle vittime ucraine della guerra, e Chulpan Khamatova, la cui fondazione benefica è stata indagata dopo che ha invocato pubblicamente la pace. Come la pittrice Sasha Skochilenko, che rischia 10 anni di carcere per aver sostituito, in un supermercato pietroburghese, i cartellini dei prezzi con cartoncini che denunciavano le stragi di Bucha. Le decine di donne portate via dalla polizia per aver srotolato un manifesto con una colomba della pace o il comandamento «non uccidere», o aver soltanto scritto «no alla guerra» sull’asfalto con un gessetto.
Ma il mito della donna naturalmente portatrice di pace viene smentito da tante appassionate sostenitrici della guerra, come Margarita Simonyan, la capa della propaganda del Cremlino che nei talk show televisivi invoca bombardamenti atomici dell’Ucraina e dell’Europa. Come Elvira Nabiullina, la governatrice della Banca Centrale che, dopo anni di inflessibile politica monetaria, sta cercando di stabilizzare il rublo polverizzato dalle sanzioni, senza avere il coraggio di ammettere, e far ammettere a Putin, che l’economia russa sta andando incontro alla catastrofe. Come Olga Bykovskaya, resa tristemente famosa da una intercettazione in cui dava a suo marito Roman, militare inviato in Ucraina, il permesso di «stuprare le ucraine», e come tante altre mogli e madri che hanno incitato mariti e figli a saccheggiare le case ucraine, facendo «ordinazioni» di elettrodomestici e vestiti da rubare.
È una spaccatura profonda, quella della società russa, che si manifesta perfino nella tragedia dei caduti. Olga Efremenko è stata tra le madri che hanno denunciato le bugie del comando: suo figlio Nikita era un marinaio dell’incrociatore Moskva, dato per «disperso» dopo settimane dall’ affondamento della nave. «Vorrei sapere la verità, anche se probabilmente i militari non ce la diranno mai», dice, mentre altre madri dei soldati vanno a cercare i loro figli prigionieri in Ucraina, oppure scendono in piazza come Irina Ochirova, di Ulan-Ude. Ma ci sono anche le vedove che posano davanti alle telecamere con in mano una manciata di rubli di compensazione e madri, come Natalia della regione di Sverdlovsk, che in un’intervista ha dichiarato di essere fiera del figlio caduto che ha «combattuto per la Russia».