Nuovo accordo sul commercio

Addio al Nafta – Stati Uniti, Canada e Messico hanno raggiunto un’intesa sul libero scambio per il Nord America. Denominato Usmca, sostituirà il vecchio trattato che risaliva al 1994 e si tradurrà in mercati più liberi equi e forti
/ 08.10.2018
di Federico Rampini

Il pioniere dei trattati di libero scambio non c’è più. Le picconate che Donald Trump sta sferrando alla globalizzazione, cominciano a intaccarne i pilastri. Il Nafta che nel 1994 creò il grande mercato unico Usa-Canada-Messico, è stato a lungo uno di questi pilastri. Nel bene e nel male. Servì da apri-pista e da modello per altri trattati di liberalizzazione degli scambi e degli investimenti. Divenne anche il bersaglio prediletto per molti anti-global, che all’origine erano numerosi soprattutto a sinistra. La galassia di organizzazioni e di movimenti che contestarono il vertice della World Trade Organization a Seattle nel 1999 (dai sindacati operai agli ambientalisti), avevano fatto le prove negli anni precedenti criticando gli effetti del Nafta sui salari, sull’occupazione, sull’ambiente. Poi i temi anti-global sono stati recuperati dal sovranismo di destra. Con Trump, si passa all’azione. O meglio, alla distruzione. Il Nafta lascia il passo al suo successore: Us-Mexico-Canada Agreement (Usmca). Il brutto acronimo serve a sottolineare la svolta, la fine di un’epoca. L’accordo raggiunto tra l’Amministrazione Trump e il governo Trudeau ha evitato il trauma di un trattato solo bilaterale Usa-Messico che avrebbe isolato il Canada.

L’atmosfera è euforica, Wall Street ha festeggiato, nel trionfo Donald Trump si rivela magnanime, celebra «un successo per i nostri tre Paesi». Ma la modestia, così inabituale per il personaggio, stavolta è fuori luogo: ha vinto lui. La sua tattica negoziale spregiudicata e perfino brutale ha dato i risultati che sperava; tra i beneficiari delle nuove regole ci sono gli agricoltori Usa e soprattutto l’industria automobilistica di Detroit. L’esito del lungo braccio di ferro coi canadesi s’impone all’attenzione di Pechino e Bruxelles: sul commercio internazionale l’Amministrazione Trump è un osso duro, guai a chi la sottovaluta.

Tra le novità più rilevanti del nuovo trattato c’è una regola «di sinistra», nettamente favorevole ai sindacati operai: l’imposizione di un salario minimo nell’industria automobilistica. Questo penalizza soprattutto il Messico, che durante il periodo del Nafta ha visto il suo commercio bilaterale con il vicino settentrionale passare da un leggero disavanzo ad un attivo di 68 miliardi di dollari l’anno scorso: grazie soprattutto alle delocalizzazioni di fabbriche (le «maquiladoras»), spesso effettuate da multinazionali Usa per sfruttare il minor costo del lavoro al di là del confine meridionale. Il Canada da parte sua ha già livelli salariali simili agli Stati Uniti, le sue concessioni sono state soprattutto a favore dei prodotti lattiero-caseari made in Usa. Da parte di Washington l’unica concessione significativa per giungere all’accordo è stato il riconoscimento dell’autorità dei tribunali che devono decidere in caso di contenzioso: per principio Trump era contrario perché ogni giurisdizione sovranazionale gli appare una violazione della sovranità degliUsa; ha finito tuttavia con accettarlo per convincere i canadesi. 

Il nuovo trattato non entra in vigore subito, prima deve essere ratificato dai rispettivi Parlamenti e di questi il più difficile è il Congresso di Washington. Quando il trattato Usmca approderà sulla collina del Campidoglio, si sarà già insediato il nuovo Congresso uscito dall’elezione del 6 novembre. Se i democratici avranno riconquistato la maggioranza, molto dipenderà da loro. Tuttavia è difficile che i parlamentari democratici – soprattutto quelli degli Stati industriali – arrivino a sabotare un accordo commerciale che soddisfa le rivendicazioni dei sindacati. Già si è espresso qualche esponente della sinistra radicale anti-global con apprezzamenti verso le nuove regole ottenute da Trump. Durante questa campagna elettorale i candidati democratici non attaccano Trump sui negoziati commerciali, per paura di inimicarsi la propria base.

Tra i dettagli dell’accordo, due clausole favoriscono le case automobilistiche di Detroit (Ford, Gm, Fca). La prima impone che per essere importate senza dazi le automobili abbiano almeno il 75% di componenti fabbricate in Nordamerica. Questo penalizza soprattutto alcuni produttori stranieri (Nissan, Volkswagen) che usano percentuali superiori di componenti fabbricati in altri paesi latinoamericani o asiatici a costi inferiori. L’altra regola impone che il 40% dei componenti di un veicolo siano prodotti da operai che guadagnino almeno 16 dollari all’ora. Il governo messicano stima che attualmente il 32% degli autoveicoli fabbricati sul suo territorio non soddisfano questi criteri. Il nuovo trattato quindi può accelerare un movimento di rimpatrio o ri-localizzazione almeno parziale di produzioni a Nord del Rio Grande/Rio Bravo. 

L’aver piegato le resistenze, prima messicane e poi canadesi, renderà l’Amministrazione Trump riluttante a fare concessioni sugli altri tavoli dei negoziati in corso, che riguardano soprattutto la Cina e l’Unione europea. Sul Vecchio continente incombe la minaccia di un superdazio del 25% che colpirebbe soprattutto le importazioni dal Giappone (Toyota) e dalla Germania (Volkswagen, Mercedes, Bmw). In totale si tratta del 22% di tutte le auto vendute negli Stati Uniti. In quanto alla Cina, si moltiplicano i segnali di un rallentamento della sua crescita, a conferma che la sua capacità di parare i colpi rispondendo a Trump con le rappresaglie ha dei limiti. Il presidente sovranista, eletto grazie ai voti decisivi di una classe operaia che si è sentita tradita e impoverita dalla globalizzazione, su questo terreno mantiene le promesse. 

A conferma che i suoi avversari hanno un potere contrattuale ridotto, è interessante osservare quanto «piace» il dollaro al governo cinese. Infatti si susseguono le maxi-emissioni di bond in dollari da parte del Tesoro di Pechino: 3 miliardi in un solo mese, ed è già la seconda quest’anno. I Treasury Bond cinesi sono emessi con tagli decennali e trentennali. Rappresentano un segnale di fiducia – tutt’altro che scontato – verso la moneta degli Stati Uniti. Anzitutto perché arrivano nel mezzo della furiosa contesa commerciale tra i due Paesi. E poi perché un decennio fa, all’epoca della grande crisi, la Cina proclamava apertamente la sua intenzione di scalzare la supremazia planetaria del dollaro, denunciandola come una fonte di instabilità. Acqua passata. Xi Jinping ha dovuto arrendersi all’evidenza: la leadership del dollaro per adesso non ha alternative, anzi come effetto della crisi del 2008 si è perfino rafforzata perché il mondo intero ha usato la Federal Reserve come prestatore di ultima istanza.

Per valutare come Trump arriva alle elezioni di mid-term sul fronte economico, alla sua vittoria sul Nafta bisogna aggiungere un’altra notizia maturata negli stessi giorni. È l’annuncio di Amazon che alza d’un sol colpo del 50% il salario minimo dei suoi dipendenti meno pagati, a 15 dollari l’ora. Questo vale per tutti i lavoratori di basso rango, 250.000 a tempo pieno, più i 100.000 assunti a part-time o contratti stagionali. Molti sono addetti alla logistica, come i depositi delle merci o le consegne. È un’ottima notizia, che viene dal numero uno del commercio digitale e da una delle aziende più capitalizzate del mondo; conferma la buona salute dell’economia americana e il recupero di potere contrattuale dei lavoratori. Ma è anche un gesto tardivo e parziale, un’operazione di relazioni pubbliche per un’azienda contestata per il trattamento della forza lavoro… e il cui fondatore è un avversario implacabile di Trump, nonché editore del giornale d’opposizione «The Washington Post». Il padrone sarà un progressista, ma i suoi dipendenti rimangono abbastanza poveri: la busta paga media di un dipendente Amazon è di 28.446 dollari lordi, da confrontare con la soglia della povertà a 22.000. Per un’azienda «regina di Borsa», che ha superato i mille miliardi di dollari di capitalizzazione, non sono dati esaltanti.

Più che un gesto di magnanimità, la mossa di Amazon conferma una nuova tendenza. Dopo un lungo periodo – che ebbe inizio negli anni ’80 – in cui la condizione dei lavoratori è andata deteriorandosi, il potere contrattuale era indebolito, i redditi in declino come potere d’acquisto, negli ultimi mesi c’è un’inversione di tendenza. Le normative ancora stentano a riconoscerlo. Ma le aziende che devono reclutare hanno interesse a prenderne atto.

Il salario minimo federale negli Stati Uniti è di 7,25 dollari l’ora. È fermo dal 2009. Non è passata la proposta di legge di Bernie Sanders per alzarlo a 15 dollari. Se avesse seguito sia l’inflazione sia gli aumenti di produttività, dovrebbe essere già a 18,50 dollari l’ora. Numerosi Stati Usa in realtà hanno dei salari minimi superiori. California e New York, ad esempio (che sono due dei tre Stati più ricchi e popolosi) hanno alzato il loro a 15 dollari orari, cioè il livello che ora viene concesso da Amazon. 

Bezos non è all’avanguardia. Altre aziende, più piccole e meno ricche di Amazon, hanno alzato i loro minimo a 15 dollari: il caso più noto la Walt Disney ha concesso l’aumento al personale dei suoi parchi attrazione ad agosto. Infine è utile paragonare le condizioni della «nuova classe operaia» – di cui fanno parte certamente i fattorini di Amazon – con quelli dei colletti blu tradizionali. Un metalmeccanico di Detroit già adesso guadagna più di un dipendente di Amazon; eppure Gm Ford e Fca sono dei nani in confronto, valgono una frazione della sua quotazione in Borsa.

Il gesto di Amazon è indicativo della buona salute del mercato del lavoro. È più una conseguenza che un giocare d’anticipo: ormai siamo vicini al pieno impiego, la manodopera scarseggia, chi cerca un lavoro anche poco qualificato può permettersi di scegliere. È un boom dal quale Trump cercherà di trarre vantaggi elettorali tra un mese.