Cinque anni sono pochi per giudicare un papa, capo di un’istituzione storico-religiosa fondata duemila anni fa. Ma sono abbastanza per valutare, oggi e senza pretesa di prevedere il futuro, se le aspettative create dall’elevazione del cardinale Bergoglio al soglio papale, nel marzo 2013, siano state avvicinate o meno. Per questo occorre ricordare tre fattori: quale fosse lo stato della Chiesa al momento dell’avvento di papa Francesco; quali orizzonti si prevedeva aprisse l’elezione del primo papa americano, del primo gesuita alla massima responsabilità ecclesiastica insita nel magistero petrino; e quali risultati abbia prodotto in questo quinquennio. Per ordine.
L’avvento di Bergoglio è figlio di un gravissimo trauma, le dimissioni di Benedetto XVI. Pontefice di rara cultura teologica, piuttosto tradizionalista e non audace nello stile e nel carattere, costretto a rinunciare alla sua funzione perché incapace di gestire gli scandali sessuali e affaristici, e quindi il discredito, che avevano colpito la curia romana e ampi settori della Chiesa universale. Un gesto criticato da molti cattolici, anche fra l’alto e il basso clero, perché di norma i papi muoiono, non si dimettono per farne un altro. Insomma, l’accusa era di viltà. Altri invece, sempre in quel mondo, videro nella rinuncia di Ratzinger l’opportunità di rinnovare e rilanciare un’istituzione in profonda crisi di credibilità, tuttavia riferimento di circa 1 miliardo e 250 milioni di fedeli sparsi nei cinque continenti. Di fatto, sempre meno diffusi in Europa – un tempo giardino della Chiesa – sempre più nelle Americhe e in Africa, con una presenza tuttora marginale in Asia, dove pure nacque, visse e predicò Gesù Cristo.
Ratzinger rappresentava l’ultimo tentativo di salvare le radici europee della Chiesa, nel senso della rievangelizzazione – sulla base della più ferrea applicazione della dottrina – del Vecchio Continente. Impresa assai improbabile, visto il grado di secolarizzazione ormai dominante persino nei paesi di più antico radicamento cattolico, dalla Spagna alla Francia, dall’Italia alla Polonia.
Poco prima che Bergoglio fosse chiamato a guidare la Chiesa, un altro grande gesuita, il cardinal Martini, già arcivescovo di Milano poi ritiratosi a Gerusalemme per coltivare la sua passione – lo studio della Bibbia – pronunciò una sentenza terribile: «La Chiesa è indietro di duecento anni». Certo Martini non immaginava che Bergoglio fosse l’uomo capace di stimolarne la sintonizzazione con i nuovi tempi. Nel conclave del 2005, quello che alla morte di Giovanni Paolo II elesse Benedetto XVI, Martini impedì che Bergoglio venisse eletto, facendo convogliare i suoi elettori verso Ratzinger. A dimostrazione della scarsa stima nei confronti del confratello gesuita.
L’arrivo a Roma di un prelato argentino, presentato in genere come moderato se non conservatore, avversario della teologia della liberazione, con una marcata vena populista alimentata dalla sua esperienza a Buenos Aires e un carattere assai chiuso, portò invece subito una boccata di aria fresca nell’universo cattolico. La scelta rivoluzionaria del nome Francesco, l’idea di «Chiesa dei poveri», la «teologia del popolo», il tratto diretto e aperto con cui si rivolgeva alla sua gente e al mondo, i suoi accenni alla necessità di un approccio più sinodale e meno centralistico nella guida della Chiesa – tutto lasciava immaginare che con Bergoglio si avviasse una stagione di riforme.
Inoltre, il papa si lanciava da subito in una campagna di «de-costantinizzazione» del potere pontificio. Ovvero nella rinuncia a quei simboli imperiali, derivati dall’opzione cristiana compiuta dai reggitori dell’imperium romanum già nel IV secolo dopo Cristo, che avevano segnato la Chiesa cattolica anche dopo il Concilio Vaticano II. La scelta stessa di non abitare nel Palazzo Apostolico ma nell’alberghetto di Santa Marta, la definizione della Chiesa come «ospedale da campo», l’assai originale prima messa (con omelia dall’ambone, avendo eliminato i tre gradini imperiali, la pedana, il rosso porpora) – insomma tutto ciò che ha sempre marcato le origini costantiniane dell’istituzione ecclesiastica – volevano segnalare l’apertura al mondo della «Chiesa in uscita». Di nuovo concentrata sull’evangelizzazione, meno condizionata dal suo apparato storico e dalla curia.
Il successo di pubblico è stato immediato. Papa Francesco è diventato un’icona. La popolarità di cui tuttora gode fra molti cattolici, ma anche fra altri cristiani e persino atei o agnostici progressisti, è apparsa subito fattore marcante del suo papato. Ma da un paio d’anni il vento è cambiato. Il papa è in stallo, attaccato da più parti, persino da cardinali che lo rimproverano in pubblico.
Le promesse riforme sono rimaste in gran parte tali. Francesco tende a concentrare su di sé le decisioni, quando ha il tempo e la voglia di prenderle. Il C9, ovvero il consiglio dei nove cardinali rappresentanti dei cinque continenti, si è rivelato un bluff. La riforma delle strutture finanziarie, appena abbozzata, non è decollata. Persino sul fronte della denuncia dei prelati accusati di pedofilia il papa è incorso in qualche incidente, certo per mancanza di informazioni. In generale, lo slancio riformatore sembra ridotto. Di qui un doppio genere di attacchi: dalla «destra», che lo considera populista e anche discretamente ignorante in punto di dottrina, e dalla «sinistra», che si sente tradita.
Francesco non sembra curarsene troppo. Forse l’impatto di un papa proveniente dalla «fine del mondo» a Roma non poteva che essere fomite di nuove crisi. Certo molti cardinali e fedeli temono che l’unità della Chiesa universale sia in pericolo. Nuovi scismi alle porte?