All’inizio dello scorso decennio un fantasma s’aggirava per il mondo, quello della «primavera araba». Termine di fabbricazione occidentale che intendeva classificare a uso mediatico le rivolte di massa in Tunisia, Egitto, Siria, Libia e altri Paesi arabi contro regimi autoritari retti da leader senescenti e/o screditati. Come sempre, leggere un fenomeno altrui con occhiali propri suscita equivoci, induce speranze improbabili, si presta alle manipolazioni. Se poi, come parrebbe, il riferimento stagionale fosse stato tratto dalla «primavera di Praga» (moto popolare che appoggiò – nel 1968 – il processo di democratizzazione e di riforme promosso da A. Dubcek in Cecoslovacchia), a parte ogni considerazione sull’irragionevolezza dell’analogia, cautela apotropaica avrebbe dovuto suggerire di non ricorrervi, visto l’esito di quell’esperimento. Ma il potere autoreferenziale dei media, oltre alle strumentalizzazioni di chi sa usare la propaganda, prevalse su freddezza e profondità d’analisi. Risultato: oggi verdetto diffuso su quelle rivolte è che siano state un incidente della storia. Da archiviare. Molto discutibile: non si cancella un primo errore analitico con un secondo, che si presume opposto. Vediamo.
A un primo sguardo l’esito di quelle rivolte – presentate spesso come rivoluzioni in atto – appare fallimentare. A cominciare dalla Tunisia, Paese di origine, scintilla di quella stagione. Il regime personale che risulta a Tunisi dal recente colpo di Stato di Kais Saied, oltre a confermare l’instabilità psicologica del protagonista, tende a prefigurare una crisi permanente in questo strategico cuneo mediterraneo-sahariano che separa (e unisce) Algeria, ciò che resta della Libia, e Italia, via Stretto di Sicilia. Non esattamente quanto si ripromettevano le masse scese in piazza contro il dittatore Zine el-Abidine Ben Ali, installato al potere nel 1987 da un golpe bianco dei servizi segreti italiani. Volgendo verso occidente di primaverile non resta nulla. Travolto e ucciso Gheddafi da un intervento francese, con l’appoggio inglese e il modesto quanto decisivo sostegno americano – limitato e non spontaneo quello italiano – la Libia s’è scomposta in coriandoli contesi da milizie locali e potenze straniere. Ne derivano diverse Libie che per comodità riduciamo alle due maggiori: la Tripolitania, sotto forte influenza turca, e la Cirenaica, dove i mercenari russi della Wagner si sono installati per restarvi. Da Sirte alle profondità desertiche un vallo in costruzione separa le due macro-Libie.
L’Egitto, cardine bicontinentale di quella che una volta era la regione levantina, è passato rapidamente dal potere militare mascherato da para-democratico guidato da Hosni Mubarak al potere ancor più esplicitamente casermesco ma meno interessato a travestirsi da democratico del generale Abdel Fattah al-Sisi. In mezzo, la breve e disastrosa stagione dei Fratelli musulmani, poi massacrati da al-Sisi e trattati da terroristi. Nota a margine: a quelle latitudini, e non solo, la qualifica di terrorista segnala normalmente il nemico di chi ha provvisoriamente il potere, il quale dovesse prevalere la rivolterebbe contro chi gliela ha scagliata contro. La Siria, come la Libia, non esiste più. La differenza è che il dittatore contro cui si erano scagliati prima i manifestanti più o meno riformatori e pacifici, poi jihadisti vari sponsorizzati da americani e altri attori occidentali, è ancora al suo posto. Bashar al-Assad è a Damasco e appoggiandosi ai russi controlla – più o meno – la maggior parte della Siria, mentre alcune importanti zone sfuggono al suo controllo, anche per la penetrazione turca nel nord, destinata a spezzare la continuità dell’elemento curdo fra Anatolia e Iraq.
Nelle altre aree levantine e mediorientali toccate dalle rivolte «primaverili», specie nella Penisola arabica, la reazione immediata dell’Arabia saudita aveva rapidamente stroncato ogni velleità riformatrice o rivoluzionaria. Tutto come o peggio di prima dunque? Così pare. Con l’aggravante dell’instabilità e della frammentazione territoriale, che riduce gli spazi classificati arabi (definizione discutibile) a periferia sempre meno rilevante per l’America e sempre più attraente per i suoi rivali: Cina e Russia, ma in qualche misura anche Turchia. Immaginare però che quelle rivolte siano passate senza lasciar traccia sarebbe illusorio. Alla radice di quei movimenti, specie delle correnti più aperte e riformatrici, erano motivi economici ma anche culturali e politici. Ora, la situazione economica è certamente peggiorata, il che lascia immaginare che presto avremo a che fare con nuovi moti per il pane. Tantomeno si può concepire che i giovani e le fasce di borghesia sentano oggi meno acuta l’urgenza di sbarazzarsi di regimi autoritari e violenti, che inchiodano i loro Paesi in una quotidianità deprimente e ne chiudono il futuro. Quelle proteste erano anche il segnale del crescente rifiuto dei meccanismi gerontocratici e patriarcali che opprimono quelle popolazioni largamente giovani, come confermato dalla partecipazione giovanile e femminile ai moti di protesta, specie in Tunisia e in Egitto.
Restano attivi tutti i fattori che agitarono Nordafrica e Levante nel 2010-12. Non dovremo stupirci se provocheranno presto o tardi nuove proteste e nuove repressioni, che peraltro già si notano intorno all’epicentro della «primavera araba». Magari, quando saranno, eviteremo di ricorrere a metafore stagionali e proveremo a restare, se possibile, ancorati alla realtà dei fatti, irriducibili a un marchio.