Il 1. dicembre 2019, a Bruxelles è entrata in carica la nuova Commissione europea, presieduta dalla tedesca Ursula von der Leyen. Il 3 dicembre, il Consiglio nazionale ha approvato il secondo miliardo di coesione destinato a finanziare progetti per ridurre le disparità economiche e sociali tra i paesi dell’UE e ad aiutare quei paesi, come la Grecia e l’Italia, che sono in prima linea nella gestione del fenomeno dell’immigrazione. Il contributo copre dieci anni ed è stato approvato anche dal Consiglio degli Stati. Il suo versamento, però, diventerà effettivo soltanto quando l’UE ritirerà le misure discriminatorie che ha adottato nei confronti della Svizzera, come la mancata proroga dell’equivalenza borsistica, e se non verranno adottate altre misure discriminatorie. È quindi difficile prevedere quando questi fondi verranno stanziati.
Tra questi due eventi non c’è un filo diretto, ma tutti e due ci ricordano la situazione di stallo in cui si trovano le relazioni tra la Svizzera e l’Unione europea. È una situazione che non lascia intravvedere un facile sbocco e che, anche in tempi brevi, potrebbe aggravarsi, addirittura degenerare, rendendo più conflittuali i rapporti bilaterali e colpendo gli interessi reciproci. Il pomo della discordia rimane il più volte citato accordo istituzionale, frutto della trattativa bilaterale che iniziò nel 2014 e che si concluse alla fine del 2018. L’accordo concerne cinque trattati bilaterali esistenti che regolano l’accesso al mercato dell’UE (trasporto aereo, trasporti terrestri, libera circolazione delle persone, agricoltura ed ostacoli tecnici al commercio) ed eventuali nuovi trattati bilaterali che riguardano l’apertura reciproca di un mercato, come per esempio il previsto accordo nel settore dell’elettricità. Si tratta di vedere in che modo, in questi settori, la Svizzera deve riprendere l’attuale e futuro diritto europeo, nonché di definire un percorso adeguato per risolvere eventuali conflitti.
Nonostante l’accordo raggiunto un anno fa, la posizione di Bruxelles e quella difesa da Berna rimangono contrapposte.
L’Unione europea ritiene che l’accordo sia definitivo e rifiuta di riprendere il negoziato bilaterale, fosse anche soltanto per rivedere alcune parti del testo. Accetta solo di chiarire alcuni punti sollevati dalla Svizzera e di dar loro spazio in alcuni protocolli aggiuntivi. Chiede quindi alla Svizzera di firmare l’intesa e di avviare il processo interno di ratifica. È la posizione che ha assunto la vecchia Commissione europea presieduta da Jean-Claude Juncker e che è stata ripresa anche dalla nuova Commissione. Ursula von der Leyen si è schierata in favore della continuità. Terrà un occhio aperto sul dossier Svizzera, come faceva Juncker, ed ha affidato la gestione del dossier al commissario austriaco Johannes Hahn, che ne era già il titolare nella vecchia Commissione. Non c’è dunque, almeno per ora, nessun segnale di cambiamento e di una supposta volontà di voler affrontare il dossier Svizzera su nuove basi.
Nel definire le sue scelte, Bruxelles è condizionata sia dalla volontà degli Stati membri dell’Unione, sia dal negoziato sulla Brexit. La fermezza dimostrata nei confronti di Londra è stata voluta non soltanto come difesa degli interessi dell’Unione, ma anche come esempio da mostrare a Stati membri che avessero analoghe volontà secessionistiche, od a Stati, come la Svizzera, con i quali l’UE ha negoziato un accordo che non è ancora definitivamente concluso. Concessioni fatte ad una capitale possono spingere le altre capitali interessate a chiedere la stessa cosa.
La Svizzera non giudica definitivo l’accordo istituzionale che è stato negoziato. Il Consiglio federale ha lanciato una procedura interna di consultazione, dalla quale sono emersi tre punti particolarmente critici. In primo luogo, l’attuale protezione dei salari. L’accordo metterebbe a rischio alcune misure di accompagnamento introdotte dal parlamento svizzero per impedire il dumping salariale. Poi, gli aiuti statali. I Cantoni temono che l’UE non accetti le garanzie accordate alle banche cantonali ed i contributi dati ad aziende che operano al servizio della collettività.
Infine, la direttiva sulla cittadinanza. Bruxelles prevede di estendere i diritti dei cittadini dell’Unione, in particolare di rafforzare i diritti agli aiuti sociali e di limitare le condizioni per l’espulsione dei criminali. La direttiva non è contemplata nell’accordo quadro, ma Berna teme che, con l’entrata in vigore dell’accordo, si ritrovi un giorno costretta a riprendere i punti essenziali di questa direttiva e le sue future modifiche. Di fronte alle resistenze emerse dalla procedura di consultazione, il Consiglio federale ha chiesto alla Commissione europea un chiarimento sui tre punti contestati e la Commissione si è dichiarata pronta ad agire.
In realtà, il governo vuole qualcosa di più di un chiarimento, vuole rinegoziare i tre punti. Per raggiungere questo obiettivo, però, deve prima concordare una posizione comune con i partner sociali ed i Cantoni. Un lavoro che è in corso, ma che non è stato ancora ultimato. Ne risulta una fase di temporeggiamento, durante la quale il Consiglio federale sembra in attesa di una situazione più propizia, sia sul piano internazionale, quando la Brexit sarà completata, sia sul piano interno, quando il popolo ed i Cantoni si saranno espressi sull’iniziativa popolare dell’UDC «Per un’immigrazione moderata». Un’iniziativa che in realtà chiede l’abolizione della libera circolazione delle persone. La votazione si terrà probabilmente nel mese di maggio.
Come uscire da questa situazione? Come trovare un accordo che salvi le relazioni bilaterali con l’UE? L’Unione rimane il primo partner economico della Svizzera: assorbe il 52% delle esportazioni elvetiche ed il 70% delle nostre importazioni proviene dall’UE. Qualche proposta è emersa nei media. Michael Ambühl, ex segretario di Stato ed ex capo negoziatore degli accordi bilaterali II, oggi professore al Politecnico di Zurigo, ha proposto sulla NZZ di concludere un accordo interinale con l’UE. Un accordo che consenta di mantenere le relazioni bilaterali e di prevenire i conflitti, rinviando a più tardi il negoziato bilaterale, quando la situazione internazionale sarà più favorevole. La «Sonntagszeitung» ed il «Tages-Anzeiger hanno suggerito un cambio nella guida della diplomazia elvetica. Hanno proposto che Alain Berset diventi il nuovo capo del Dipartimento federale degli affare esteri e che Ignazio Cassis assuma la direzione del dipartimento federale dell’interno. Berset incontra grossi problemi con la riforma delle assicurazioni sociali e, quando è stato presidente della Confederazione ha dimostrato di essere molto attivo sul piano internazionale. Cassis ha avuto problemi nella gestione del dossier Europa ed il passaggio al dipartimento federale dell’interno sarebbe più consono al suo passato politico.
Tutte le proposte vanno probabilmente nella giusta direzione. Presuppongono, però, la chiara volontà politica del Consiglio federale di affrontare in modo deciso il dossier Europa. Per esempio, compiendo qualche viaggio in più a Bruxelles, piuttosto che in Russia od in Arabia Saudita, nonché allacciando strette relazioni con i responsabili dell’Unione europea. Una chiara volontà politica che, purtroppo, non si riscontra già da molto tempo.