Nucleare, accordo in forse

Reportage dall’Iran – 1. Secondo Israele l’Iran ha mentito e continua a costruire la bomba atomica. L’accusa di Netanyahu arriva proprio nel momento in cui Trump deve decidere entro il 12 maggio se abbandonare il patto con Teheran firmato nel 2015 da Obama
/ 07.05.2018
di Federico Rampini

Viaggiare può aiutarci a capire il mondo: me lo conferma la mia visita in Iran. Ho appena concluso più di due settimane d’immersione in un paese che attraversa una fase rovente. Un viaggio in Iran può essere un’esperienza estrema, avvincente e quasi sconvolgente, perché pochi paesi soffrono di una sindrome così acuta da «incomprensione reciproca» con l’Occidente. Noi abbiamo un carico di pregiudizi su di loro. Loro – a dire il vero, soprattutto i loro dirigenti – contraccambiano con ostilità e scomuniche. Il loro regime non fa molto per correggere l’opinione che noi ci siamo formati da lontano. In quanto ai cittadini iraniani, hanno un handicap asimmetrico rispetto a noi: per loro è molto difficile viaggiare, negli ultimi anni la concessione dei visti è diventata sempre più complicata, l’accesso agli Stati Uniti ed anche a diversi paesi europei è ormai un sogno irraggiungibile per molti.

La distanza tra popolo iraniano e regime degli ayatollah è la prima cosa che sorprende – positivamente – il visitatore occidentale. Gentilezza estrema, amichevolezza, ospitalità, curiosità. Lo avevo sentito dire da chi c’era stato prima di me, eppure sono rimasto affascinato, conquistato dalle loro maniere, ben oltre le mie aspettative. L’altra cosa che colpisce subito è la loro ansia da isolamento, il ripetere ossessivo di quella domanda: «Come ci giudicate? Cosa pensate di noi? Che immagine abbiamo noi iraniani in Occidente?».

Ho viaggiato col mio passaporto italiano ma senza nascondere né il mio mestiere di giornalista né il fatto che possiedo un secondo passaporto (americano) e risiedo a New York. Ero con un piccolo gruppo di amici, una specie di micro-riassunto delle Nazioni Unite perché tra noi c’erano cittadini italiani e francesi, croati e brasiliani, statunitensi e argentini. C’erano le nostre mogli, che hanno vissuto un’esperienza ancora più intensa di noi, vista la condizione della donna in Iran.

Contrariamente ai timori prima della partenza, all’arrivo a Teheran non hanno bloccato il giornalista del gruppo (io), mentre hanno trattenuto per cinque ore all’aeroporto due amici con mestieri più innocui (un giudice italiano che lavora all’Onu e un imprenditore francese). Poi tutto si è risolto, ma la burocrazia iraniana può essere imprevedibile.

L’Iran ha un regime teocratico e autoritario, però il livello di censura l’ho trovato molto inferiore rispetto a quello che conosco meglio: la Cina. A differenza che a Pechino, in Iran ho avuto quasi sempre accesso ai maggiori siti di informazione occidentale, leggevo quotidianamente il «New York Times» e il notiziario online della Cnn. Proprio nei giorni del mio viaggio, improvvisamente è stato oscurato il social media più usato dagli iraniani: Telegram. Ma su questo blackout si è assistito ad uno scontro al vertice: a deciderlo sono stati i potenti apparati di sicurezza (che rispondono per lo più ai pasdaran, braccio militare del potere religioso) mentre il ministro della Comunicazione era contrario. L’interpretazione più diffusa: il regime avrebbe avuto dei segnali di una possibile ripresa delle proteste popolari, come ce n’erano state a dicembre. Comunque i miei amici di Teheran mi hanno detto che durante il blackout di Telegram potevano continuare a usare Whatsapp e Instagram. E la sera in cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto un duro attacco in tv contro l’Iran, io mi trovavo a casa di una famiglia di pastori nomadi nel deserto dei Kaluts: con tanto di antenna satellitare, il discorso di Netanyahu lo abbiamo visto sul canale della Bbc in farsi (la lingua iraniana).

Vengo dunque al discorso del premier israeliano, e alle conseguenze che può avere, visto dall’Iran. «L’Iran ha mentito, continua a costruire la bomba atomica, punta ad averne almeno cinque della potenza di quella sganciata a Hiroshima». Questa accusa di Netanyahu è arrivata in un momento cruciale. Entro il 12 maggio Donald Trump può ritirare unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano che Barack Obama firmò nel 2015 e che fu il preludio alla parziale levata delle sanzioni su Teheran. La tempistica della mossa israeliana è essenziale. Punta a esercitare la massima pressione su Trump, a pochi giorni da un passo gravido di conseguenze per gli equilibri geostrategici del Medio Oriente. Dove già Israele e l’Iran sono pericolosamente vicini a un conflitto diretto, più volte sfiorato in Siria.

Il presidente iraniano Hassan Rouhani ha minacciato di riprendere il programma nucleare se le sanzioni saranno ripristinate. Ma secondo il premier israeliano quel programma non è mai stato completamente interrotto. Netanyahu ha affermato di avere oltre 55mila documenti carpiti dagli «archivi segreti» di Teheran, che conterrebbero «la prova conclusiva della menzogna iraniana». Il regime degli ayatollah, secondo lui, avrebbe violato l’accordo del 2015 continuando a prepararsi per un futuro da potenza nucleare. A questo si aggiunge l’arsenale missilistico iraniano «ormai in grado di raggiungere Tel Aviv, Riad, perfino Mosca». Netanyahu ha definito questo furto di segreti come «uno dei maggiori successi di intelligence» nella storia dei servizi israeliani. Trump ha voluto attribuirgli la massima credibilità: «Ecco la prova – ha detto il presidente americano – che avevo ragione al 100% nel criticare quell’accordo».

Lo «scoop» israeliano naturalmente viene da una fonte di parte. Netanyahu è sempre stato contrario all’accordo nucleare firmato da sei potenze (Usa, Russia, Cina, Francia, Inghilterra, Germania) con il governo Rouhani. Il premier israeliano attaccò Obama in occasione della firma di quell’intesa nel 2015. L’agenzia internazionale per l’energia nucleare (Aiea) che ha compiti di vigilanza sul rispetto dell’accordo, non ha dato particolare peso al discorso di Netanyahu.

Il colpo realizzato dai servizi israeliani, quand’anche autentico, in realtà non sembra contenere prove su un avanzamento clandestino nell’armamento nucleare iraniano in questi tre anni. A ben guardare l’accusa è che Teheran ha prima mentito sulle sue reali intenzioni atomiche dal 2003 al 2015, poi nel 2017 ha messo al sicuro tutti i progressi fatti. L’obiettivo sarebbe quello di poter riprendere la costruzione dell’atomica non appena scade l’accordo, nel 2025. Il che, certamente, non deporrebbe in favore delle intenzioni pacifiche degli ayatollah. E riporta in primo piano un punto debole di quell’accordo noto in partenza: la sua breve durata.

Comunque sia, l’annuncio-shock di Netanyahu sembra sfondare una porta aperta: Trump già quando era candidato accusò Obama di aver firmato un’intesa «pessima, disastrosa». Il partito repubblicano, ancor prima dell’elezione di questo presidente, era della stessa opinione. Vi si aggiunge la posizione dell’Arabia saudita, allineata con Israele. Casa Bianca, Congresso, governo israeliano, principe ereditario saudita Muhammad Bin Salman: questi quattro attori sembrano d’accordo nel considerare l’Iran come il pericolo numero uno in Medio Oriente, peggio di Assad o dell’Isis perché in grado di conquistare un’egemonia regionale.

Nel corso della settimana precedente l’Europa aveva tentato di farsi sentire: a Washington si sono succeduti in rapida sequenza Emmanuel Macron e Angela Merkel. Il presidente francese ha presentato una sorta di piano B, tentando di venire incontro alle preoccupazioni di Trump, di Israele e dei sauditi e al tempo stesso di salvare l’accordo del 2015. La proposta di Macron punta a rinegoziare quell’intesa rafforzandola su tre punti: un allungamento di validità, dei limiti alla potenza missilistica iraniana, e un contenimento della «influenza regionale» di Teheran (leggi: appoggio a Hezbollah, ingerenze in Sira e Libano, aiuti alla guerriglia sciita nello Yemen). L’acrobazia francese è spericolata, perché non ci sono finora segnali che l’Iran sarebbe disposto a riaprire i negoziati né tantomeno a fare concessioni così sostanziose. Il presidente Rouhani, e ancor più la guida religiosa suprema Ali Khamenei, si comportano come gli eredi dell’impero persiano e considerano legittime le aspirazioni ad un ruolo da superpotenza in Medio Oriente.

Un residuo margine d’incertezza sulla decisione del 12 maggio, per quanto esile, viene paradossalmente dalla Corea. In quel teatro pur lontanissimo, Trump ha dimostrato flessibilità. Il ritiro unilaterale dal patto con l’Iran potrebbe renderlo meno credibile anche nel summit con Kim Jong Un, se la conclusione è che l’America non rispetta i patti già firmati. Ma il conto alla rovescia procede implacabile, e lo stesso Macron si è detto convinto che Trump deciderà per l’uscita dall’accordo.

Visto dall’Iran, lo scenario è molto diverso. I dirigenti di Teheran, religiosi e politici, non sembrano particolarmente spaventati dalla prospettiva di una ripresa delle sanzioni. In primo luogo perché la levata delle sanzioni è stata molto meno sostanziosa di quanto si credeva. Per esempio, rimane un isolamento del sistema bancario e finanziario, tant’è che noi turisti dobbiamo portarci dietro i contanti, le carte di credito non sono accettate. Inoltre nelle sanzioni e nel mercato nero chi fa affari sono le oligarchie di regime, come la galassia di aziende legate ai pasdaran. Per certi versi la denuncia americana dell’accordo è considerata un evento scontato, una sceneggiata di politica interna degli Stati Uniti. In quanto alla popolazione iraniana, ho avuto testimonianze frequenti del malcontento verso il regime. L’importanza del programma nucleare non viene condivisa da molti cittadini che hanno altri problemi: disoccupazione e inflazione. Ho sentito ripetere spesso questa lamentela: che il governo «si occupa dei problemi degli arabi», andando a finanziare guerre in Siria o nello Yemen, e sperperando risorse che servirebbero in casa propria.