Il mondo ha trepidato per Notre-Dame, ma non era Notre-Dame quella che bruciava in diretta sugli schermi delle tv o degli smartphone. Erano legni e metalli. La vera Notre-Dame è un simbolo, e i simboli non muoiono mai. Oltretutto la guglia crollata era neogotica, non originale. Certo, resta una perdita grave. Ma non irreparabile.
Alla fine pare non sia successo quasi nulla: in due giorni si è passati dalla catastrofe irreparabile alla promessa collettiva della ricostruzione. In realtà, è successo di tutto.
Le immagini della Cattedrale in fiamme sullo sfondo del cielo cobalto del tramonto di Parigi resteranno nella memoria, anche in quella fragile dei nostri giorni, anche in quella effimera della rete; così come resterà il ricordo del terrore della notte, quando per un’ora si è temuto che crollassero pure le torri e la facciata. Un giornalista di France2, il primo canale pubblico, ha fatto notare che se l’incendio fosse scoppiato a mezzogiorno, quando fumo e fiamme si confondono con la foschia e la luce del giorno, e si fosse capito già per l’edizione delle 20 dei tg che la cattedrale avrebbe retto, l’impatto del rogo di Notre-Dame sarebbe stato minore.
C’è una cosa che resta autentica e certa: lo sgomento di fronte a qualcosa che ci trascende tutti, e quindi ci riguarda. Bastava sbirciare nei social dei nostri figli e nipoti: anche ragazzini che forse non sono mai entrati in una chiesa in vita loro mettevano in comune il senso di impotenza, il dolore sincero per una perdita che li feriva in quanto parte dell’umanità. Poi certo c’è sempre l’imbecille che gioisce, ed è giusto darne conto, ma è l’eccezione che conferma la regola.
Resta da capire come sia possibile che, nel più laico degli Stati, nella più secolarizzata delle ere, una Cattedrale diventi – in una nazione che non è considerata la più simpatica – un simbolo universale.
Alcuni motivi sono evidenti.
Dentro magari no, troppa coda, ma da fuori Notre-Dame l’hanno vista un po’ tutti, e un po’ tutti avevano una loro foto con Notre-Dame da postare; e per una volta il narcisismo si faceva emozione condivisa.
La potenza dell’immagine del rogo è diventata globale in pochi secondi, grazie anche all’immancabile tweet di Trump (per il quale molti americani si sono scusati sui social con i francesi).
Notre-Dame non è solo una chiesa, è un romanzo – che Hugo scrisse quando aveva appena 29 anni –, è un film della Disney, è un musical di enorme successo.
Notre-Dame ha ispirato quasi tutti i poeti della letteratura francese, da Paul Claudel, che diciottenne si convertì a Notre-Dame la notte del Natale 1886, a Gérard de Nerval: una sua citazione – «tra migliaia di anni sognatori verranno a contemplare questa rovina austera, rileggendo il libro di Victor» – girava l’altra notte sui social degli studenti.
Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se la storia francese non avesse fatto di Notre-Dame un simbolo destinato ad andare oltre la religione. La Cattedrale è sempre stata la chiesa dei parigini, non della monarchia. I re si facevano incoronare a Reims e seppellire a Saint-Denis. Il primate di Francia risiedeva a Sens. Napoleone lo sapeva e volle farsi incoronare qui proprio per dare l’idea che lui fosse un autocrate «nuovo», rivoluzionario. Non è finita bene, ma la storia si è mossa nel suo solco.
La Terza Repubblica (1871-1940) fu governata da laici e massoni; però si celebrarono a Notre-Dame i funerali dei marescialli della Grande Guerra, Foch e Joffre, e più tardi quelli dei generali della Seconda guerra mondiale, Leclerc, de Lattre de Tassigny e Juin. Pétain fu invece frettolosamente sepolto a Port Joinville, dov’era stato trasferito in una casa privata per gli ultimi giorni: condannato a morte per collaborazionismo dopo la Liberazione, fu graziato da de Gaulle, che ne era stato il pupillo, e chiuso in una fortezza sull’isola di Yeu, nell’Atlantico. Nel febbraio 1951, per i 35 anni della battaglia di Verdun, de Gaulle – in quel momento privo di qualsiasi autorità che non fosse morale – chiese e ottenne dal presidente Auriol che fosse trasferito da quella tetra prigione. Sul certificato di morte venne scritto «Philippe Pétain, senza professione». De Gaulle fece in modo che venisse corretto in «Philippe Pétain, maresciallo di Francia».
Con l’arcivescovo di Parigi, Emmanuel Suhard, il Generale non era stato altrettanto misericordioso. Quando le truppe della France Libre entrarono nella capitale, de Gaulle fece celebrare un Te Deum a Notre-Dame, ma impose che la cerimonia non fosse tenuta dal cardinale. Motivo: un mese prima aveva celebrato proprio nella cattedrale le esequie del ministro della Propaganda di Vichy, Philippe Henriot, ucciso da un gruppo di resistenti. L’ingresso di de Gaulle nella chiesa dei francesi fu accolto dal cantico del Magnificat, il 26 agosto 1944, intonato sul sagrato da 40 mila parigini, che all’evidenza lo sapevano.
Quando poi nel 1970 il Generale morì, il suo funerale fu celebrato ovviamente a Notre-Dame, sia pure senza bara. Decine di telecamere vennero installate dentro e fuori la cattedrale. L’evento fu trasmesso in mondovisione e seguito da 300 milioni di telespettatori, mentre i funerali veri si tenevano per volontà del defunto nel suo villaggio dell’Alta Marna, Colombey-les-deux-Eglises.
Qualcosa del genere accadde anche per Mitterrand: a Notre-Dame c’era il suo successore, Jacques Chirac, accanto all’arcivescovo di Parigi Lustiger, ebreo convertito al cattolicesimo, a celebrare una sorta di alleanza tra il trono e l’altare; c’erano capi di Stato e di governo di tutto il mondo, compresi Castro e Arafat (che uno Stato non l’aveva); ma non c’era il feretro. Mitterrand nel frattempo veniva sepolto a Jarnac, alla presenza delle sue due famiglie, quella ufficiale e quella clandestina; e la moglie Danielle abbracciò la figlia naturale Mazarine. È una grande storia, quella della Francia e della sua Cattedrale; non poteva finire così, in un mucchio di cenere.