L’indicazione del giornalista italo-svizzero Marcello Foa alla presidenza della Rai, bocciata dalla Commissione di Vigilanza del Parlamento italiano, ha riaperto in Italia il dibattito sulle fake news, sull’ingerenza straniera nei processi democratici occidentali e sulle tecniche di manipolazione del consenso attraverso l’uso dei social network. Ma la polemica intorno alle bufale ritwittate da Foa, talmente grottesche da aver svegliato un Paese che sembrava invece condannato a convivere con chi la sparava più grossa, ha oscurato un’incredibile dichiarazione pubblica del sottosegretario con delega all’editoria del governo italiano che, invece, avrebbe meritato maggiore attenzione.
Il sottosegretario si chiama Vito Crimi ed è un esponente di quel movimento populista Cinque stelle che sulla circolazione di fake news ha costruito un consenso popolare grazie al quale è diventato il primo partito italiano. In controtendenza con il dibattito nel mondo libero, Crimi ha rivendicato l’importanza strategica, liberale e democratica delle fake news, sostenendo che «se reprimiamo le fake news, reprimiamo la libertà di informazione. E dovremmo anche sanzionare le bugie che ci diciamo tra noi».
Avete letto bene: il governo italiano pensa che diffondere bufale, ovvero notizie create ad arte per corrompere il dibattito pubblico, costruire surrettiziamente consenso e creare allarme sociale, sia un diritto da salvaguardare. Attenzione, Crimi non parla della libertà di credere in buona fede a notizie che poi si dimostrano false, sostiene piuttosto che sia necessario garantire il diritto di cittadini o di movimenti o di agenti stranieri di diffondere scientemente notizie false per fuorviare l’opinione pubblica. Siamo alla paradossale codificazione della posizione della consigliera di Donald Trump, Kellyanne Conway, che in diretta televisiva definì «alternative facts», fatti alternativi, la prima grossolana bugia del presidente sul numero di presenze alla cerimonia di inaugurazione del suo mandato alla Casa Bianca. Le bugie con Trump sono diventate «fatti alternativi» mentre ora, con il governo sovranista italiano, addirittura una prerogativa da preservare.
Foa, Crimi e Conway rappresentano il lato surreale di una vicenda molto seria, ma in realtà nessuno ha ancora trovato un modo efficace per limitare la diffusione di fake news, in particolare quelle prodotte da stati stranieri ostili al modello di società aperta occidentale. Non è un problema nuovo, quello delle fake news, soprattutto per la tradizione russa, a cominciare dal Protocollo dei Savi di Sion creato dalla polizia segreta zarista per diffondere l’odio anti ebraico fino alle bufale sul virus dell’Aids fabbricato dagli americani secondo la macchina della propaganda sovietica durante la Guerra Fredda.
La differenza rispetto ad allora è la velocità di diffusione, la capacità di penetrazione grazie alle tecniche psicometriche e la dimensione di un fenomeno che si affida a software, i cosiddetti bot, per automatizzare il processo di fabbricazione, divulgazione e infiltrazione delle notizie false. Insomma, Internet sembra quasi una tecnologia progettata appositamente per soddisfare le campagne di propaganda di apparati autoritari e antidemocratici, siano essi pubblici o privati. Negli Stati Uniti, in questo momento guidati da un presidente sospettato di essere stato aiutato dai servizi russi a vincere le elezioni del 2016, la soluzione è affidata alla buona volontà delle grandi piattaforme social, Facebook e Google, costrette a conciliare gli effetti di una crisi reputazionale e il loro business multi miliardario che si basa sulla viralità delle informazioni e sulla monetizzazione dei dati personali degli utenti.
Il vicepresidente della Commissione Intelligence del Senato di Washington, il democratico Mark Warner, ha presentato una serie di proposte legislative per aiutare le grandi piattaforme digitali ad autoregolamentarsi e a ripulire i social da disinformazione e ingerenze, senza arrivare però a proporre lo spacchettamento dei monopolisti della Silicon Valley né una regolamentazione delle Big Tech affidata a un’Authority di controllo come quella sulle telecomunicazioni.
Ma al momento il problema principale, anche secondo il White paper del senatore Warner, sembra quello che gli apparati americani militari e di intelligence non siano ancora sufficientemente attrezzati per prevenire un altro attacco, magari alle prossime elezioni di metà mandato, come quello subito alle presidenziali del 2016. Ma è anche vero che le attività dei servizi di intelligence sono per loro natura segrete, quindi non ne sappiamo granché, ma desta preoccupazione il prossimo livello, più sofisticato, di fake news rappresentato dai deep fake, ovvero dai software che creano artificialmente immagini e audio molto credibili di persone che fanno o dicono cose che in realtà non hanno mai fatto né detto (al momento l’uso più diffuso e ancora artigianale di deep fake è quello di rappresentare le facce di personaggi famosi in filmati pornografici).
Oggi le attività di debunking, di ridimensionamento delle bufale che circolano sulla rete, sono affidate all’impegno di singoli giornalisti e di alcune aziende editoriali che hanno capito che il futuro del business dei media tradizionali passa attraverso la credibilità del prodotto offerto ai lettori e non inseguendo i clic. Facebook ha chiuso alcune pagine gestite da agenti stranieri allo scopo di manipolare le elezioni americane di novembre, sta testando alcuni sistemi di controllo e ha già modificato il suo News feed, mentre Twitter inizia a ripulire la piattaforma da account falsi.
Con l’eccezione della tanto vituperata Unione Europea che, tra mille difficoltà e ostacoli posti dai movimenti populisti e dalle campagne di lobbying di Big Tech, sta provando a regolamentare il mondo digitale – dalla direttiva sulla protezione dei dati personali al tentativo, per ora fallito, di remunerare il copyright delle aziende editoriali sui contenuti che circolano in rete – i governi occidentali non stanno facendo nulla. Anche perché, dagli Stati Uniti all’Italia, ora sono guidati da movimenti che in questo ecosistema digitale e anche su rapporti ambigui con la Russia di Vladimir Putin hanno prosperato.
Ma c’è di più: l’offensiva dei populisti, dei sovranisti, dei filo Putin di qua e di là dell’Atlantico, come dimostrano i tweet di Trump, le dichiarazioni di Crimi e il cospirazionismo di Foa, prova a ribaltare il tavolo e ad etichettare come fake news le notizie provenienti da organizzazioni giornalistiche serie come la Cnn e i grandi giornali internazionali e, allo stesso tempo, a legittimare la spazzatura diffusa ad arte da profili finti, da complottisti tragicomici e da cellule di propaganda del Cremlino come Russia Today o Sputnik. Che, poi, i diffusori di fake news siano agenti consapevoli, o semplicemente ingenui, di interessi stranieri è ancora da dimostrare. Nel caso di Trump, una risposta arriverà a breve, dopo l’estate, con la fine dell’inchiesta federale del procuratore speciale Robert Mueller sui rapporti tra i servizi russi e la Trump Tower.