Nostalgia a sinistra, sbaraglio a destra

Riflessioni dopo il voto di ballottaggio per le Amministrative nella vicina Penisola
/ 25.10.2021
di Alfredo Venturi

E ora, in Italia, che si fa? Dopo il voto di ballottaggio per le Amministrative, che ha coinvolto alcune grandi città come Roma e Torino, le valutazioni e le conseguenti iniziative sono al centro dell’attenzione sia fra i vinti, come il Movimento 5 stelle e i partiti di destra e centro-destra, sia fra i vincitori, il Partito democratico e i suoi alleati. Tanto per cominciare c’è un dato che riguarda tutti: ha votato meno della metà degli elettori, chiaro segnale di una disaffezione per la politica a livello d’allarme. Una volta l’Italia votava compatta, specie quando era in ballo la scelta dei sindaci e delle Amministrazioni comunali. Un po’ meno alle politiche, l’ultima volta, nel 2018, l’affluenza sfiorò il 73%: il dato più basso della storia repubblicana, eppure nettamente superiore al 44% di queste elezioni. Non a caso Matteo Salvini prova a consolarsi ironizzando sui «quattro gatti» che hanno eletto molti sindaci. Ma non può dimenticare che l’accesso ai seggi era garantito anche ai suoi seguaci. Perché non sono andati a votare o hanno portato altrove il loro voto? Il dito sulla piaga lo mette Giorgia Meloni, leader dei Fratelli d’Italia, un altro partito ridimensionato dagli elettori ma che conserva sia il vantaggio sugli alleati-rivali della Lega, sia la preminenza nazionale nei sondaggi. Secondo Meloni la sconfitta dipende dal fatto che il centro-destra si è presentato al voto disunito e rissoso. Ma come poteva essere diversamente visto che due dei componenti dello schieramento, Forza Italia e Lega, partecipano più o meno volentieri al Governo di Mario Draghi mentre il terzo, FdI, è all’opposizione?

FdI restano il più forte fra i partiti della destra, per questo chiedono che si proceda al più presto all’elezione del presidente della Repubblica, poiché il mandato di Mattarella sta per scadere, e poi il nuovo capo dello Stato sciolga il Parlamento e indica le elezioni con un netto anticipo rispetto alla scadenza fisiologica della legislatura nella primavera del 2023. Dopo la batosta, Salvini non ha fretta di votare, prende tempo, annuncia che non farà cadere Draghi, che cioè i suoi ministri resteranno nell’attuale Governo. Confida invece che gli converrebbe andare al voto un euforico Enrico Letta, l’ex presidente del Consiglio che ora guida il Pd: un risultato elettorale così favorevole, dice, potrebbe indurci a chiedere le elezioni anticipate. Ma non lo faremo, aggiunge, perché la tenuta di questo Governo è nell’interesse nazionale. Travolto dall’entusiasmo per un successo oltre ogni aspettativa, in particolare per i risultati di Roma e Torino dopo che al primo turno il centro-sinistra aveva confermato il predominio a Milano, Napoli e Bologna, Letta non esita a parlare di «vittoria trionfale» mentre un impassibile Draghi prosegue la sua azione volta al rilancio dell’economia, alla definizione del piano di ripresa e resilienza finanziato dall’Ue, alle riforme fiscali e giudiziarie, alla gestione di quella che ci si augura sia la fase terminale della pandemia.

Che cosa si profila dunque sull’inquieto orizzonte della politica italiana? Riusciranno i partiti a riconquistare un po’ della fiducia perduta? E con quali prospettive per le elezioni parlamentari? Comunque vada, da quelle elezioni usciranno Camere molto diverse dalle attuali, che rispecchiano un voto di protesta a tutto vantaggio del Movimento grillino oggi sul viale del tramonto. Nel centro-sinistra si respira un’aria di nostalgia per l’Ulivo, il fronte progressista che a suo tempo portò Romano Prodi a Palazzo Chigi. La sera del voto lo stato maggiore del Pd si è avvicendato sul palco per celebrare la schiacciante vittoria di Roberto Gualtieri, nuovo sindaco di Roma. Quel palco lo avevano eretto in Piazza dei Santi Apostoli, dov’era la sede dell’Ulivo di Prodi. Ma per resuscitare quella esperienza non basta che Gualtieri riesca davvero a «far funzionare Roma», impresa di per sé complicata. C’è un’esigenza supplementare: che i potenziali alleati del Pd, da Matteo Renzi a Carlo Calenda fino a Giuseppe Conte, l’ex presidente del Consiglio che guida ciò che resta dei Cinquestelle, diano prova di una lealtà che non tutti nel partito di Letta sono disposti a considerare parte del loro Dna.

Sul fronte opposto il centro-destra intende rappresentare un’Italia profonda che, come confermano i sondaggi, è molto più conservatrice della componente metropolitana. Dunque dovrà evitare gli errori che l’hanno portato al disastro. Come le sbandate populiste e sovraniste, le polemiche anti-europee, le strizzatine d’occhio a impresentabili frange neofasciste, le ambigue aperture verso i no-vax. Non a caso si è rifatto vivo Silvio Berlusconi, fautore di un centro-destra moderato. È vero che Forza Italia ha condiviso la sconfitta, e da tempo ha perduto punti nelle graduatorie del consenso: ma è accaduto anche perché condizionato dai suoi capricciosi alleati. Toccherà a questa destra moderata il compito di tenere a freno gli imprevedibili soci, provare ad allargarsi al centro (Calenda, Renzi?) e mettersi nella condizione di affrontare un centro-sinistra rivitalizzato dalla conquista di Roma e Torino. Come andrà a finire? Dipenderà da quanti voteranno, non solo da come. Il futuro è nelle mani degli elettori e non soltanto, come dicevano gli antichi, sulle ginocchia di Zeus.