Non tutto (il lavoro) è perduto

Rapporto Ocse – Progresso e innovazione tecnologica elimineranno tante occupazioni ma al contempo favoriranno la creazione di nuovi mestieri
/ 30.04.2018
di Christian Rocca

La notizia della fine del lavoro è fortemente esagerata, almeno pare. Un recente rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha ridimensionato di molto le paure sulla perdita dei posti di lavoro a causa dell’automazione. Il tema è uno di quelli decisivi di questa epoca, non solo per le ricadute economiche sulla società, ma anche perché è considerato la radice, se non la causa, della diffusione della protesta populista che dall’America all’Europa sta cambiando la geografia politica dell’Occidente. Il precedente grande rapporto, curato nel 2013 da due accademici all’università di Oxford, prevedeva che il 47 per cento dei posti di lavoro potesse scomparire a causa della computerizzazione. Il nuovo rapporto dell’Ocse sostiene che è a rischio «soltanto» il 14 per cento di posti di lavori nei 35 paesi, tra cui la Svizzera e l’Italia, membri del «centro studi dei paesi ricchi», come viene definito l’Ocse.

La notizia è buona, per una volta. Ma non si può sottovalutare il dato assoluto, ovvero che sarebbero comunque 66 milioni i posti di lavoro a rischio. Non sono pochi 66 milioni di posti di lavoro in meno. Inoltre, un altro 32 per cento dei jobs attuali, secondo l’Organizzazione che ha sede a Parigi, cambierà in modo significativo e la società globale dovrà adattarsi per evitare un impatto altrettanto deleterio della scomparsa dell’occupazione.

Alcuni paesi, soprattutto dell’Europa meridionale e orientale, sono molto più vulnerabili dei paesi anglosassoni, aggiunge la ricerca. Il 33 per cento di tutti i lavori della Slovacchia, per esempio, è altamente automatizzabile, contro soltanto il 6 per cento di quelli norvegesi. Ma anche Germania, Cile e Giappone rischiano di più di un paese come l’Olanda. Secondo l’Ocse, soltanto negli Stati Uniti si perderanno 13 milioni di posti a causa di algoritmi e intelligenza artificiale, soprattutto nel settore manifatturiero e agricolo. A rischio anche il settore dei servizi, tipo quelli postali e dei corrieri, ma anche i trasporti di terra, la preparazione di cibi e le pulizie. La ricerca dell’Ocse spiega che anche all’interno dei singoli paesi l’impatto dell’automazione non sarà omogeneo o equamente distribuito, quindi è probabile che in certe zone industriali le economie locali ne potranno risentire, con disagi sociali ancora più deleteri di quelli causati negli anni Cinquanta a Detroit dall’allora inedita automazione delle fabbriche.

Lo studio dell’Ocse non prevede un futuro roseo, quindi, ma certamente lo immagina meno distopico di quello previsto dal paper di Oxford che fin qui ha influenzato il dibattito e le politiche pubbliche occidentali sull’automazione. Di conseguenza, sarebbe il caso che leader, partiti e governi ridefiniscano le strategie sul lavoro. Uno dei motivi per cui il rapporto Ocse è meno cupo di quello del 2013 è tecnico, perché il nuovo studio mostra una maggiore attenzione nel distinguere i lavori catalogati con lo stesso nome ma che presentano differenti probabilità di essere sostituiti da robot o computer.

Le conseguenze dell’automazione saranno comunque enormi, anche perché si amplieranno le differenze non solo salariali, ma anche di garanzia del posto di lavoro e tra posti altamente qualificati e pagati bene e occupazioni non sicure e pagate poco. Questa disparità peraltro è un elemento che contribuirà a polarizzare ulteriormente le società, con le evidenti conseguenze politiche che già da un paio d’anni si cominciano a vedere.

A questo punto c’è da chiedersi quale sia la vera notizia di questa ricerca dell’Ocse, e cioè se possiamo abbassare la guardia e continuare a lasciarci ammaliare dalla tecnologia oppure se dobbiamo tenerla alta e continuare a preoccuparci della nostra sicurezza sociale.

La lettura del rapporto non dà una risposta univoca: ce n’è abbastanza per tirare un sospiro di sollievo, visto che gran parte dei lavori non si estingueranno, ma contemporaneamente lascia intatte le ragioni di chi si fa prendere dall’ansia. Eppure nel paper dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico c’è un altro passaggio fondamentale, oltre a quello del minor numero di posti eliminati dall’automazione, per molti versi più importante del primo.

Secondo gli studiosi dell’Ocse, infatti, «la tecnologia porterà senza dubbio molti nuovi lavori».

Eccolo, il punto. Non è un’affermazione da poco. Progresso e innovazione tecnologica elimineranno alcune occupazioni, tante ma non tantissime come si temeva, muteranno geneticamente il modo di lavorare, ma non impediranno, semmai favoriranno, la creazione di nuovi mestieri, di nuove domande, di nuovi posti di lavoro. Per questo le politiche pubbliche dei paesi sviluppati dovrebbero concentrarsi sul cercare e investire denari e risorse per l’istruzione e l’addestramento nei settori che rischiano di più e per prepararsi alle nuove esigenze della società. Riqualificare i lavoratori è un meccanismo sociale importante per accompagnare la transizione, in particolare quella dei giovani. Gli analisti Ocse sottolineano l’importanza di aiutare i giovani a ottenere un’esperienza lavorativa, i primi rudimentali strumenti del mestiere, già durante gli anni di frequenza scolastica e, inoltre, evidenziano la necessità di ampliare la formazione e le forme di protezione sociale dei lavoratori delle industrie in forte ristrutturazione e in via di ridimensionamento.

Insomma la prossima grande ondata di automazione potrebbe non essere così devastante come si temeva, anzi è probabile che possa creare nuove e ancora inesplorate opportunità. Ovviamente questa dell’Ocse è solo un’analisi, per quanto autorevole, che si basa su non banali precedenti della storia e su un solido atteggiamento salvifico, quasi fideistico, nei confronti del progresso e dell’innovazione. Non è poco, ma incrociamo le dita.