«Non si parli di Taiwan!»

Ogni riferimento all’indipendenza della piccola isola nel Pacifico genera reazioni furiose da parte di Pechino. Intanto Taipei si prepara in vista di un’eventuale invasione dopo il ritiro degli Stati uniti dall’Afghanistan
/ 20.09.2021
di Giulia Pompili

La differenza può farla un nome. E il Paese che non si può nominare è Taiwan. In America, l’Amministrazione di Joe Biden vorrebbe cambiare la denominazione dell’ufficio «di rappresentanza economica e culturale di Taipei» in «ufficio di rappresentanza di Taiwan». Ma quando la scorsa settimana è iniziata a circolare questa ipotesi il tabloid in lingua inglese «Global times», organo della propaganda del Partito comunista cinese, ha scritto in un editoriale che la Cina «reagirà con imponenti misure militari» se ciò dovesse accadere. Sembra un dettaglio linguistico e una reazione spropositata, ma dietro alla differenza tra i due nomi c’è un mastodontico problema che riguarda le relazioni della Repubblica popolare cinese con il resto del mondo. E non è solo una questione politica.

All’inizio di settembre il presidente del marchio di orologi svizzero Audemars Piguet, François-Henry Bennahmias, in un’intervista circolata molto online, si è riferito a Taiwan come fosse un Paese sovrano, e subito dopo il cantante e attore cinese Lu Han, testimonial internazionale degli orologi, ha annunciato di aver chiuso la sua collaborazione con il marchio svizzero per protesta. A nulla sono servite le scuse pubbliche di Audemars Piguet, che sul social network cinese Weibo ha pubblicato un messaggio in cui dice di aver «sempre aderito alla posizione di una sola Cina» e «salvaguardato fermamente la sovranità nazionale e l’integrità territoriale cinese». Ma ormai il mercato del Dragone (1,3 miliardi di consumatori) è diventato «un incubo delle pubbliche relazioni», ha scritto il giornale «Jing daily».

Infatti non è la prima volta che succede: in Cina le celebrità devono aderire ai «valori patriottici» e subiscono pressioni se collaborano con brand occidentali che criticano o vanno contro i principi e le regole del Partito comunista. Perdere un testimonial cinese è un disastro per le aziende europee o americane, e il loro boicottaggio può durare a lungo. Nel 2019 Versace lanciò una serie di t-shirt sulle quali Hong Kong e Macao risultavano territori indipendenti dalla Cina, fu un passo falso che pagò caro. L’attore e wrestler americano John Cena diffuse qualche mese fa un videomessaggio, parlando in mandarino, per chiedere perdono ai suoi fan cinesi: disse di aver parlato «per sbaglio» di Taiwan come di un Paese indipendente durante un’intervista.
Sono circa 180 i chilometri che dividono la cosiddetta Cina continentale dall’isola che un tempo veniva chiamata l’isola Formosa: l’isola bella, secondo il nome che gli diedero i portoghesi.

Quello stretto del Pacifico, una lingua di Oceano che divide Taiwan dalla Cina, è considerato da molti analisti il luogo della prossima crisi internazionale. Abitata da popolazioni indigene, alla fine degli anni 40 del secolo scorso Taiwan divenne il rifugio sicuro dei nazionalisti cinesi, che da anni combattevano contro le truppe di Mao Zedong. La sanguinosa guerra civile tra nazionalisti e comunisti aveva diviso la popolazione cinese, e anche il suo territorio. La ritirata dei cittadini fedeli al leader nazionalista Chiang Kai-shek, nel 1949, avrebbe dovuto essere solo momentanea: nei progetti del generalissimo la Repubblica di Cina avrebbe preparato sull’isola di Taiwan il contrattacco per riconquistare il territorio cinese, ormai nelle mani della Repubblica popolare di Mao. Ma col passare degli anni quella volontà egemonica passò in secondo piano. Il 1. gennaio 1979, quando gli Usa dopo anni di negoziazioni aprirono la loro ambasciata a Pechino, riconobbero di fatto la Repubblica popolare cinese abbandonando i rapporti diplomatici ufficiali e formali con la Repubblica di Cina (Taiwan). L’America accettò il compromesso per avere la possibilità di entrare nel mercato cinese, ma contemporanea-mente si impegnò a difendere Taiwan da qualunque tipo di aggressione, specie da un eventuale attacco di Pechino.

Oggi tutti i Paesi occidentali e tutte le istituzioni internazionali seguono il principio dell’«Unica Cina», che è una specie di compromesso fatto per non scontentare la seconda economia del mondo. Nei fatti, significa che di Taiwan è difficile parlare perché ogni riferimento alla sua forma di governo e alla sua indipendenza genera crisi diplomatiche e furiose reazioni da parte della Cina, che preferisce parlare di «autonomia» dell’isola, la stessa autonomia che era garantita a Macao e Hong Kong, l’ex colonia inglese che dallo scorso anno, dopo l’introduzione da parte di Pechino della legge sulla sicurezza, è molto meno autonoma di prima. In ogni caso le questioni territoriali sono fondamentali per la politica cinese e chi sbaglia, specie all’estero, paga, quasi sempre con ritorsioni economiche. Il risultato è spesso l’autocensura. Da decenni ormai la situazione tra Taiwan e Cina è cristallizzata in questo limbo diplomatico. Ma da quando la piccola isola del Pacifico, poco più di 22 milioni di persone, ha cominciato a rivendicare la sua identità nazionale – con eccellenze nel campo della tecnologia ma anche culturali, e con un’attenzione particolare nei confronti del suo sistema democratico e dei diritti – la Cina sempre più nazionalista del leader Xi Jinping ha iniziato a guardare a Taipei come a una minaccia. Per questo da qualche anno Taiwan è al centro del dibattito internazionale. In molti guardano all’isola del Pacifico come alla scintilla della prossima grossa crisi tra Washington e Pechino, uno scontro tra il modello occidentale e quello che la Cina sta imponendo al resto del mondo.

Dopo il ritiro americano dall’Afghanistan, e degli alleati che avevano partecipato alla guerra ventennale, per la propaganda di Pechino è stato facile utilizzare quelle immagini per far passare un messaggio: l’America non sarà al vostro fianco, vi abbandonerà come ha fatto con il popolo afgano. La differenza, rispetto all’Afghanistan, è che negli anni Taiwan ha costruito la sua identità profonda, anche militare: la scorsa settimana l’isola è stata coinvolta in 5 giorni di esercitazioni «anti-invasione». I militari taiwanesi hanno provato le tecniche di messa in sicurezza della popolazione in caso di attacco chimico o batteriologico, o per contrattaccare nel caso in cui le Forze armate di Pechino dovessero tentare un’invasione terrestre. Un’eventualità che non converrebbe a nessuno, nemmeno alla Cina. Ma che nessuno, da Taipei a Washington, si sente di escludere.