Qualcosa incomincia a muoversi: le grandi piattaforme digitali, Facebook e Google, non sono più libere di fare quello che vogliono, come lo vogliono e quando lo vogliono, prendendosi peraltro anche gli applausi di incoraggiamento delle vittime. O, meglio, continuano ad abusare della loro posizione dominante e nessuno ha ancora trovato il modo di limitare i danni causati alla società dalla dittatura dell’algoritmo, ma per la prima volta si nota una nuova consapevolezza pubblica o, perlomeno, se ne incomincia a parlare.
Prima l’Unione europea ha chiesto conto delle palesi violazioni fiscali, di privacy e di copyright dei giganti di Internet, poi sulla base della nuova direttiva comunitaria la Francia ha imposto una multa di 50 milioni di euro a Google mentre l’America ancora discute sull’interferenza russa sulle elezioni presidenziali, ma adesso è finito sotto i riflettori anche il giochino dei «10-Year Challenge», diffusosi viralmente sui social media, grazie al quale centinaia di migliaia, probabilmente milioni, di persone hanno pubblicato le fotografie di propri primi piani di dieci anni fa accanto a quelle di oggi. Ma il «10-Year Challenge» è soltanto un passatempo ingenuo e divertente, come si è affrettato a precisare Facebook, proprietario di Instagram, oppure nasconde qualcos’altro?
La prima a porre il tema è stata Kate O’Neill, autrice del libro Tech Humanist: How can you make technology better for business e better for humans, naturalmente su Twitter: «Io dieci anni fa: probabilmente sarei stata al gioco dei meme fotografici sull’invecchiamento in corso su Instagram e Facebook. Io adesso: Mi chiedo se questi dati saranno utilizzati per addestrare gli algoritmi del riconoscimento facciale sull’avanzamento dell’età». Il tweet è diventato un articolo della rivista «Wired» e, nonostante le smentite di Facebook, si è diffusa l’idea che l’intera operazione della «10 year challenge» sia un’astuta manovra del gigante di Menlo Park per testare e migliorare i propri algoritmi. In realtà, tutte le foto e i dati biometrici che già forniamo ai social costituiscono una banca dati formidabile a disposizione di algoritmi e altre sperimentazioni, senza alcuna garanzia di trasparenza e di modalità d’uso futuro.
Come ha scritto Kate O’Neil, «ci sono cose che non pensiamo siano pericolose, e poi tra cinque o dieci anni capiremo che invece sono una minaccia, ma a quel punto avremo già consegnato i nostri dati». E li abbiamo consegnati gratuitamente, regalandoli, ecco perché in un recente paper pubblicato dalla «Harvard Business Review», uno dei pionieri di Internet e della realtà virtuale, Jaron Lanier, con la collaborazione del professor E. Glen Weyl, ha proposto di monetizzare i dati che quotidianamente forniamo alle piattaforme digitali, compresi quelli altrui di cui usufruiamo, creando una specie di mercato globale dei dati, con tanto di sindacati e mediatori in grado di difendere gli interessi di tutti, in modo da sfuggire al destino del reddito di cittadinanza fornito centralmente dallo Stato, un sogno realizzato di comunismo distopico, verso cui necessariamente ci stiamo dirigendo a causa della sparizione dei posti di lavoro colpiti dall’innovazione tecnologica.
Il caso Facebook è quello più rilevante. Fa riflettere, a proposito di sfida dei dieci anni, il cambiamento di atteggiamento, in questi due lustri, nei confronti del colosso di Zuckerberg. È del 2010 il film di David Fincher e Aaron Sorkin, The Social Network, che per quanto non nascondesse le origini tumultuose dell’idea di Mark Zuckerberg, descriveva in modo epico la sua scalata al successo, tanto da diventare un irresistibile strumento di ispirazione e di propaganda per chiunque volesse lanciare start up e idee dirompenti. Ora, invece, tra le inchieste inglesi sui dati ceduti a Cambridge Analytica, quelle americane sulle manipolazioni russe, quelle fiscali europee e una certa ossessione, secondo Zuckerberg stesso, del «New York Times» che sforna scoop su scoop sulle malefatte della sua creatura, probabilmente a causa del senso di colpa di aver fin qui sottovalutato l’impatto dei social sui processi democratici, trascorsi quindi dieci anni dal film, Facebook comincia a essere visto come un problema da risolvere, certamente da regolamentare per prevenire guai ulteriori.
L’ultima bordata a Zuckerberg l’ha tirata uno dei suoi mentori e consiglieri, tuttora investitore di Facebook: Roger McNamee è una figura primaria della Silicon Valley americana, avendo investito negli ultimi 35 anni svariati milioni di dollari, e ha appena scritto un libro, il cui titolo dice già tutto: Zucked – Waking Up to the Facebook Catastrophe, nato nove giorni prima delle elezioni presidenziali del 2006 che hanno eletto, a sorpresa, Donald Trump, nel momento in cui ha inviato una email a Zuckerberg descrivendosi «infastidito, imbarazzato, vergognato» per il comportamento di Facebook, nonostante ancora non fossero pubbliche molte delle cose di cui siamo venuti a conoscenza successivamente: «Facebook ha fatto cose davvero orribili – ha scritto McNamee a Zuckerberg – e io non posso più scusare questo comportamento».
La tesi del libro di McNamee è quella centrale di questa epoca: «Il business model dipende dalla pubblicità, che a sua volta dipende dal manipolare l’attenzione degli utenti in modo che vedano più pubblicità. Uno dei modi più efficaci di manipolare l’attenzione è appellarsi alla rabbia e alla paura, emozioni che fanno aumentare il coinvolgimento. L’algoritmo di Facebook dà agli utenti quello che vogliono, e così il flusso di notizie di ciascuno di loro diventa una realtà separata, una bolla che crea l’illusione che la maggioranza delle persone che l’utente conosce la pensa allo stesso modo». E, ancora, «informazione e disinformazione sembrano la stessa cosa, l’unica differenza è che la disinformazione genera maggiori ricavi, viene trattata meglio dall’algoritmo che quindi preferisce i messaggi estremi a quelli neutrali, cosa che contribuisce ad aumentare la disinformazione a danno dell’informazione, le teorie della cospirazione sui fatti».