Migliaia di rifugiati siriani hanno manifestato nelle ultime settimane in decine e decine di città della Danimarca. Le organizzazioni umanitarie del Paese, Mellemfolkeligt samvirke, Dansk flygtningehjælp ungdom e Amnesty international, hanno sostenuto i manifestanti e portato i sit-in anche di fronte alla sede del Parlamento a Copenaghen. Le piazze hanno chiesto al Governo di mettere fine alle revoche dei permessi di soggiorno per i rifugiati di origine siriana. Lo scorso aprile, infatti, la Danimarca – pur non riconoscendo formalmente il Governo di Bashar al Assad – ha inaugurato una politica di cancellazione dei permessi di soggiorno dei cittadini siriani originari della provincia di Damasco, sulla base di un controverso report che considera l’area ormai sicura, esponendo diverse centinaia siriani con regolare permesso di soggiorno alla possibilità di dover lasciare il Paese. A oggi sono alcune centinaia le persone a cui sono stati revocati o non rinnovati i permessi. Molte di loro avevano imparato il danese e trovato un’occupazione stabile.
La Danimarca è tra i Paesi europei con le leggi più severe in materia di immigrazione e asilo. Dal 2011 nel Paese con circa 6 milioni di abitanti sono arrivati dalla Siria circa 34 mila rifugiati. Al culmine della crisi migratoria in Europa, nel 2015, la Danimarca ha ricevuto più di 20 mila domande di asilo, domande che sono scese a 2716 nel 2019 e 1515 nel 2020. Diverse misure controverse sono state messe in atto per scoraggiare l’immigrazione. Nel 2018 sono state emanate leggi per regolare la vita delle persone «non occidentali» che risiedevano nei «ghetti», parola che la legge danese usa per definire i quartieri in cui vivono le persone in gravi difficoltà economiche.
Tra le misure entrate in vigore anche l’obbligo per i figli di immigrati di frequentare corsi di «valori danesi» e la riduzione del numero di alloggi a pigione moderata destinati alle famiglie provenienti da Paesi extraeuropei. E nel 2019 l’allora Governo di centrodestra annunciò un «cambio di paradigma» delle politiche migratorie, inasprendo le norme sui ricongiungimenti familiari e confermando il principio della natura temporanea dello status di rifugiato nel Paese. Così quando il Paese di origine di un rifugiato viene considerato sicuro e i suoi timori di persecuzione ritenuti infondati, il permesso viene revocato. Le conclusioni di un recente rapporto del «Country guidance for Syria» dell’Easo, l’ufficio europeo di sostegno all’asilo, che ha valutato il governatorato di Damasco «relativamente stabile», sono state sostenute dal giudice nazionale danese Henrik Block Andersen, capo del Danish refugee board, una sorta di Corte d’appello sulle richieste d’asilo. Il giudice ha dichiarato che nella capitale siriana al momento non esisterebbe «un rischio reale per un civile di essere colpito personalmente».
Però le conclusioni del rapporto in questione sono come detto controverse e 11 dei 12 analisti che hanno contribuito a stendere il documento hanno criticato le posizioni del Governo danese. Inoltre il report include un paragrafo che non viene mai menzionato da Copenaghen. Questo tratteggia il destino che i cittadini siriani affrontano una volta tornati a casa: 3 siriani su 4, tra quelli in fuga dalla guerra civile, una volta tornati nelle zone controllate dal regime sono esposti al rischio di violenze, abusi, arruolamento forzato, arresto, tortura e sparizione. Questi dati vengono confermati anche da numerose Ong e organi di stampa indipendenti siriani, come «Syrian untold», il quale sostiene che il regime di Bashar al Assad abbia costruito un meccanismo di sparizioni e arresti di massa, e che molti arresti, pur effettuati dalle forze ufficiali del regime, si tramutino in rapimenti a scopo di estorsione. «A Damasco il regime di Assad ha rafforzato il proprio potere attraverso terribili violazioni dei diritti umani: arresti arbitrari e la diffusione di strutture dove viene praticata la tortura», ha dichiarato la dottoressa Haifaa Awad, un’attivista per i diritti umani siriana che vive a Copenaghen.
L’attuale Governo danese, socialdemocratico, non solo attua con convinzione la politica delle revoche, ma aspira – nelle parole della ministra di Stato Mette Frederiksen – ad arrivare a «zero richiedenti l’asilo». Obiettivo condiviso dal ministro per l’Immigrazione, Mattias Tesfaye, che ha offerto ingenti fondi a chi decidesse di tornare in Siria volontariamente. Dato che il Governo danese non ha relazioni diplomatiche con Damasco e che dunque non sussistono accordi bilaterali per negoziare i rimpatri, chi vede revocato il permesso di soggiorno e non parte, viene destinato ai «centri di partenza», cioè strutture gestite dal sistema carcerario danese. All’interno di questi luoghi i rifugiati vengono privati del diritto di studiare, di cercare un lavoro o frequentare corsi di lingua. Finché appunto partono.
Però chi rientra in Siria spesso non ha neppure più un’abitazione cui fare ritorno, perché molti centri urbani sono stati distrutti dai bombardamenti. Dan Hindsgaul, segretario generale di Amnesty international Danimarca, ha dichiarato di non comprendere le valutazioni delle autorità danesi, di fatto opposte a quelle di tutti gli altri Paesi, che non rispettano i diritti umani: «Le nostre ricerche dimostrano che i siriani che sono stati rimpatriati vengono sottoposti costantemente a interrogatori da parte delle forze di sicurezza siriane tristemente note per il ruolo svolto in arresti arbitrari, torture e uccisioni». Sebbene dunque, negli ultimi anni, il regime di Bashar al Assad abbia ripreso il controllo di quasi tutto il Paese e le ostilità militari siano fortemente diminuite, la Siria era e resta tutt’altro che un Paese sicuro.
Bloccati in un «Paese terzo»
A inizio giugno il Parlamento danese ha approvato un’altra controversa proposta di legge. Il testo si inserisce nella stretta sull’immigrazione del Governo socialdemocratico guidato dalla ministra di Stato, Mette Frederiksen, e ha un chiaro scopo «deterrente»: ambisce a dissuadere l’arrivo dei migranti nel Paese nordico. La normativa prevede infatti che le domande di asilo o di altre forme di protezione internazionale vengano esaminate in centri che si trovano fuori dal territorio danese, in un «Paese terzo» che non è stato ancora identificato, il quale si farà carico di accogliere i richiedenti l’asilo anche una volta che la loro domanda sarà stata accettata e di espellere i migranti che avranno ricevuto un rifiuto. La Danimarca è diventato quindi il primo Paese europeo a prevedere l’esame delle richieste di asilo al di fuori dell’Europa e a bloccare completamente l’arrivo di migranti nel suo territorio.
Non è un Paese per migranti
Negli ultimi anni la Danimarca ha messo in atto una serie misure controverse per scoraggiare gli arrivi. Le più recenti: la revoca dei permessi ai rifugiati di origine siriana e l’esame delle domande oltre confine
di Francesca Mannocchi