Non è un attentato religioso

Mohannad Sabry – L’analista egiziano specializzato in Nord Sinai spiega il contesto in cui è avvenuto l’attacco alla moschea di al-Radwa
/ 04.12.2017
di Costanza Spocci

Un’esplosione e ripetute raffiche di kalashikov hanno segnato l’attacco terroristico più mortale della storia dell’Egitto. Nella moschea sufi di al-Radwa, a Bir al-Abed nel Nord Sinai, lo scorso 24 novembre 305 delle persone raccolte in moschea per la preghiera del venerdì sono morte e 128 rimaste ferite. L’attacco è imputato, seppur non rivendicato, a Wilayat Sina, lo Stato Islamico nella penisola del Sinai.

Un attacco a sfondo religioso? «Bir al-Abed è il vero elemento per capire l’attentato», puntualizza Mohannad Sabry, analista egiziano specializzato in Nord Sinai e autore di Sinai: Egypt’s Linchpin, Gaza’s Lifeline, Israel’s Nightmare (AUC Press, 2015), «perché si tratta di un’area che è al di fuori dalla solita zona di ostilità tra l’esercito egiziano e i militanti islamisti ed è dove il governo ha dichiarato a più riprese di avere il totale controllo della situazione». L’obiettivo dell’attacco è di mettere in imbarazzo il regime, mostrando come i tanto conclamati successi del governo nelle operazioni militari in Nord Sinai non rispecchino affatto la realtà sul terreno.

Il fatto che la moschea di al-Radwa sia uno dei principali centri dell’ordine sufi Gaririya, una corrente mistica dell’Islam, è altrettanto rilevante, ma non va letto su un piano strettamente religioso. «Per quanto riguarda la comunità», spiega l’analista, «il messaggio è ora rinnovato su una scala molto più grande e più sanguinosa: anche se sei un musulmano sunnita che prega in una moschea, sei un bersaglio se non rispondi al richiamo di Isis». Ciò che più conta è che il fondatore dell’ordine sufi di al-Rawda è uno sheikh della tribù Sawarka che controlla l’area di Bir al-Abed. «Il clan Gararat (da cui Gaririya) per decenni è riuscito a fare quello che miliardi di dollari e anni di forza militare non sono riusciti a raggiungere», spiega Sabry, «cioè mantenere una forte linea di difesa ideologica, sociale e religiosa contro l’espandersi di un’ideologia jihadista, violenta e radicale». Questo, secondo l’analista, «per Wilayat Sina sarebbe molto più minaccioso di una presenza militare che si è mostrata «per anni un fallimento continuo».

Dall’agosto del 2012, infatti, è in corso l’Operazione Sinai, voluta fortemente dall’allora Ministro della Difesa Abdel Fattah al-Sisi in risposta agli attacchi di militanti islamici contro le postazioni militari egiziane al confine con Gaza. Fino alla scorsa settimana, l’epicentro del conflitto in Nord Sinai è stato la Zona C, ovvero quella striscia di terra definita dagli accordi di Camp David che va dal capoluogo di El Arish fino al valico di Rafah al confine con Gaza. Quella che inizialmente doveva essere un’operazione lampo però è diventata una guerra a bassa intensità, tutt’oggi in corso. L’obiettivo dichiarato: colpire l’insorgenza islamista della penisola, Ansar Al Beit al Maqdis, che dal novembre 2014 ha prestato giuramento a Isis e si è ridenominata Wilayat Sina (WS), la provincia del Sinai. Le operazioni dovevano creare anche una zona cuscinetto che garantisse una maggiore sicurezza a Israele, rendendo più difficile il passaggio di armi, militanti, ma anche beni di prima necessità, nei tunnel sotterranei tra Egitto e Gaza.

Le campagne militari hanno effettivamente garantito ad al-Sisi una notorietà tale da consentirgli la scalata alla presidenza; hanno dato anche il primo «La» a quella «lotta al terrorismo» che tuttora garantisce la legittimazione del suo potere. Nel frattempo, la guerra ha mietuto centinaia di vittime civili e generato migliaia di sfollati, con un picco nel 2014 quando il governo ha optato per la distruzione di 3200 abitazioni nella città transfrontaliera di Rafah. Il tessuto tribale del Nord Sinai si è inoltre progressivamente sfaldato, complici anche i decenni di politiche di repressione governativa che spesso e volentieri hanno utilizzato lo strumento della punizione collettiva. Le vecchie dinamiche claniche di controllo del territorio da parte delle principali famiglie beduine sono così saltate. Il vuoto creato l’ha riempito il «modello sanguinario di Isis che nonostante anni di repressione militare», puntualizza Sabry, «rende WS un magnete per il reclutamento di chi per opporsi allo Stato è disposto a compiere stragi pur di raggiungere l’obiettivo».

L’attacco del 24 novembre mostra l’abilità di Wilayat Sina «nell’individuare i fallimenti dell’intelligence e i punti deboli dello Stato e delle Forze Armate al di fuori della zona C», continua l’analista: «i combattenti di WS possono muoversi con armi leggere e in gran numero proprio in aree dove sono presenti accampamenti militari, come a Rawda». Per questo «la guerra al terrore e il suo fantomatico successo degli ultimi anni è decisamente da rimettere in questione», riassume Sabry. L’attentato alla moschea di Rawda, inoltre, «mostra come il media blackout imposto sul Nord Sinai non sia altro che una tattica per nascondere quello che ormai il Sinai rappresenta», conclude Sabry: «è il nervo scoperto di una falsa propaganda che il regime di Al Sisi ha diffuso per anni».