Non è «soltanto» questione di Brexit

Regno Unito – La vera posta in gioco è l’unità o la disgregazione dello Stato britannico
/ 27.05.2019
di Lucio Caracciolo

La lunga e tortuosa saga della Brexit espone la crisi culturale, identitaria e geopolitica del Regno Unito. La questione decisiva non è se, come e quando Londra lascerà l’Unione Europea – dove peraltro non è mai davvero entrata, se non con la punta del piede – ma che cosa resterà dello Stato britannico nel prossimo futuro. La vera posta in gioco è l’unità o la disgregazione dell’impero interno, quello formato a partire dal nucleo inglese, allargato al Galles, alla Scozia e all’Irlanda del Nord, e affidato alla maestà della Corona.

Le dispute politico-mediatiche che stanno dilaniando le terre britanniche, scatenate e rese visibili dal referendum sul Brexit (2016), hanno infatti una radice geopolitica profonda. Fuori dalla cronaca, vanno lette nel lungo periodo. In questa luce, sono la partita finale dell’ormai secolare processo di disgregazione dell’impero di Londra. Probabilmente il più glorioso, esteso e influente della storia moderna e contemporanea. Il cui declino era forse già inscritto nella rivoluzione e nella conseguente indipendenza americana (1776), da cui nacque quella che a tutt’oggi resta la potenza planetaria numero uno: gli Stati Uniti.

Il referendum sul Brexit va letto anche come l’estremo tentativo inglese di tenere insieme l’impero interno. Ovvero il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord. In questa operazione, la paradossale retorica neo-imperiale di Boris Johnson e degli altri cantori della Global Britain esprime il versante esterno di una disputa che riguarda la statuto geopolitico del Regno Unito. Attraverso la immaginifica proiezione globale della Gran Bretagna emancipata dai vincoli e dalle regole brussellesi, brillante secondo degli Stati Uniti (con un sovrappiù di esperienza e di coscienza imperiale), si cerca di raggiungere almeno il primo obiettivo: evitare la decomposizione dello spazio canonico intestato alla Corona britannica. Impedire quindi la secessione della Scozia, magari anche quella del Galles, e la riunificazione dell’Irlanda via annessione della sua regione settentrionale, oggi parte del dominio britannico, alla Repubblica d’Irlanda.

All’origine della crisi interna al Regno Unito sta il processo di devoluzione avviato vent’anni fa dal governo di Tony Blair. Nel tentativo di sopire le insofferenze della periferia celtica rispetto al centralismo anglo-londinese, l’allora premier laburista concepì e in parte attuò un processo di decentramento dello Stato. E lo battezzò devolution. La devoluzione del potere è oggi rappresentata nella sua espressione più evidente nel Parlamento scozzese, dotato di un grado di sovranità sempre più pronunciato.

Il referendum sull’indipendenza della Scozia, vinto di buona misura (55% contro 45%) dai fautori della permanenza nel Regno Unito, è conseguenza del processo avviato da Blair. Così come lo sono le velleità neonazionaliste dei gallesi e, soprattutto, degli inglesi. Per la prima volta nella storia dello Stato britannico, negli ultimi anni si è manifestata una identità anglo, da sempre identificata con quella britannica, finora confinata al campo sportivo. Se Edimburgo ha un suo parlamento e un suo governo, perché non può averlo anche Londra?

Sono infatti le élite inglesi che sostengono l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Con l’obiettivo primario di tenere insieme l’arcipelago britannico sotto l’egemonia inglese, per riproiettarlo sulla scena globale. Nostalgia imperiale e velleità di potenza si mescolano in un progetto estremamente acrobatico. D’altra parte, gli scozzesi, favorevoli alla permanenza nell’ambito comunitario, vedono nell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea una ragione in più per coltivare il sogno dell’indipendenza. Il leader del partito nazionalista scozzese, la signora Nicola Sturgeon, ha già messo le mani avanti proponendo un altro referendum sulla secessione entro il 2021.

Allo stesso tempo, ecco rinascere il nazionalismo irlandese. La Repubblica d’Irlanda e la componente cattolico-nazionalista dell’Irlanda del Nord oggi britannica temono l’imposizione di un confine duro fra Dublino e Belfast come conseguenza del Brexit. Ciò farebbe saltare gli accordi di pace mediati vent’anni fa dagli Stati Uniti, riaprendo le antiche ferite che lacerano quella terra divisa fra protestanti unionisti britannici e cattolici nazionalisti irlandesi.

Ancora: che ne sarà di Londra? La grande maggioranza dei londinesi ha votato tre anni fa per restare nell’Ue. Può aprirsi quindi lo scenario di una Grande Londra quale città Stato, una super-Singapore fondata sul suo rango di centro finanziario globale.

Non solo e non tanto Brexit, dunque. La scommessa decisiva riguarda l’esistenza o la decomposizione del Regno Unito.