I quattro superstiti «grandi» dell’Unione Europea – Francia, Italia, Spagna e Germania – si sono ritrovati il 7 marzo a Versailles, nella reggia dove fu firmata nel 1919 l’omonima pace, per (ri)lanciare l’idea dell’«Europa a due velocità». Un modo per dare un senso non puramente rievocativo all’incontro di Roma del 25 marzo, in occasione del sessantesimo anniversario dei trattati che fondarono le Comunità europee, oggi Unione Europea. Le intenzioni possono apparire lodevoli, ma la sostanza resta che l’Ue è avviata lungo un piano inclinato disintegrativo. Ciascuno dei 28 (presto 27, con la secessione del Regno Unito) persegue i propri interessi nazionali, mascherandoli talvolta da europei, senza preoccuparsi di mettere in piedi un percorso davvero comune verso un traguardo condiviso.
Ad allestire questa esibizione di buona volontà sono stati d’altronde tre leader in parabola discendente o che nel prossimo futuro dovranno affrontare una prova elettorale (Angela Merkel, Paolo Gentiloni, Mariano Rajoy, nella foto), mentre il quarto, François Hollande, ha rinunciato a partecipare alle elezioni presidenziali francesi nella consapevolezza di non avere alcuna possibilità di vincerle. La precarietà di questi leader riflette la crescente delegittimazione della politica nella gran parte dei paesi comunitari, in molti dei quali emergono partiti e movimenti euroscettici, quando non eurofobi.
Che senso ha, in questo contesto, parlare di «Europa a due velocità»? Di fatto, equivale ad ammettere che il processo di integrazione ha ingranato la marcia indietro. Semplicemente, i soci dell’impresa comunitaria non condividono gli stessi interessi. E senza questa concreta piattaforma, non serve a nulla evocare scenari futuri di «cooperazioni rafforzate». Anzi, queste formule rischiano di ridursi a cortina fumogena, a pura retorica destinata a mascherare il fallimento.
Stanno venendo al pettine i nodi non affrontati né tantomeno sciolti da quando l’Europa comunitaria ha cessato di essere occidentale. Perché l’impresa fu avviata, dopo la Seconda guerra mondiale, per ragioni essenzialmente strategiche, non propriamente ideali: gli Stati Uniti d’America avevano bisogno di riaggregare la loro Europa, quella non raggiunta dall’Armata Rossa, rimetterne in piedi le economie (di qui il Piano Marshall nel 1947), agganciarne le residue risorse militari alle proprie (ecco la Nato, 1949) e formalizzare la nascita di un blocco di nazioni euro-occidentali legate a Washington (Roma 1957). I sei fondatori – Italia, Lussemburgo, Germania, Olanda, Francia e Belgio – venivano così a partecipare dell’ordine della Guerra fredda, nel comune interesse di evitare la penetrazione ulteriore dell’Unione Sovietica in Europa e di contrastare il virus comunista.
Scomparsa l’Urss, siamo ancora alla ricerca di un progetto altrettanto robusto e condiviso, tale da unire cuori e menti degli europei. Se l’obiettivo iniziale era dunque – echeggiando il motto della Nato – di tenere «gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto», oggi possiamo constatare che sta avvenendo l’esatto opposto. Gli Stati Uniti non sono mai stati tanto lontani dall’Europa nel dopo-Seconda guerra mondiale. La Russia non ha affatto rinunciato ad accrescere la propria influenza nel Vecchio Continente, cui è legata da profonde radici culturali, economiche e geopolitiche. La Germania è la potenza numero uno in Europa, anche se è lungi dal determinarne i destini, come immaginavano i profeti del «Quarto Reich».
Il fattore geopolitico più rilevante in questo processo è l’allontanamento relativo degli Usa dall’Europa. Trump ha accentuato, per ora verbalmente, una postura che Washington ha scelto da diverso tempo. Semplicemente, gli americani considerano gli alleati europei inaffidabili, sconcertanti ed esosi. Li accusano di viaggiare a sbafo sul treno della sicurezza atlantica. Questo produce in alcuni paesi, Germania in testa la tentazione – o la necessità – di riarmarsi, non potendo più completamente contare sull’ombrello Usa. Gli scenari di cooperazione militare fra alcuni paesi europei, evocati a Versailles, non produrranno un esercito comunitario. Serviranno semmai da copertura per l’irrobustimento di alcune Forze armate nazionali.
La scelta delle «cooperazioni rafforzate» è in effetti l’ultima carta che resta in mano ai leader europei. La stessa azzardata con Schengen e con l’euro. Ma ora il primo accordo è di fatto affossato, in nome dell’emergenza (o presunta tale) determinata dai flussi migratori. Quanto a Maastricht, l’euro è in modalità difensiva, a rischio di imminente, fatale crisi.
L’unico percorso possibile per uscire dall’impasse sarebbe un’Europa 2.0. Una costruzione parallela rispetto ai trattati vigenti, sterili e immodificabili. Si tratterebbe di tracciare insieme, fra chi ci sta, un progetto di Stato europeo a tutto tondo, con il suo governo, il suo parlamento, il suo Tesoro e le sue Forze armate. E come tale, abilitato a giocare su scala globale, in competizione/cooperazione con i protagonisti della scena internazionale. Un simile progetto avrebbe se non altro il merito di rilanciare una vera discussione sul futuro dell’Europa, che continua a latitare. Proprio per questo, è estremamente improbabile che le attuali élite, abituate a tabuizzare il tema, si imbarchino in tale impresa. Scopriremo allora che l’«Europa a due velocità» è sinonimo di non-Europa.