Giovedì scorso l’aeroporto di Kabul è stato colpito da attacchi kamikaze, rivendicati dallo Stato islamico, che hanno causato la morte di un centinaio di persone. Una decina di soldati statunitensi e molti più civili che tentavano di scappare dall’incubo incarnato dal ritorno dei talebani. La paura e l’istinto di fuga emergono sempre quando c’è la guerra. Già il giorno prima che i talebani entrassero a Kabul, la fila davanti all’ambasciata iraniana nelle prime ore del mattino era lunga centinaia di metri. L’Ambasciata turca aveva già sospeso il rilascio di nuovi visti, così come le ambasciate pachistana, tagika e uzbeka. C’erano file davanti alle banche, gente ansiosa di ritirare i propri risparmi.
Molto prima che il presidente Ashraf Ghani lasciasse Kabul, su un volo con valigie contenenti milioni di dollari (secondo Reuters), circolavano voci sulla sua fuga. Le voci erano talmente tante che poco prima dell’entrata in città dei talebani, l’ormai ex presidente aveva registrato un video alla Nazione per promettere di unire le forze armate e le milizie di resistenza, invitando tutti a combattere il nemico. Molte parole poca sostanza. Quel video era più un modo per dire che non era ancora fuggito, un mostrarsi nel palazzo presidenziale, che una convinta e sicura strategia militare e politica. Purtroppo il minuto che avrebbe dovuto rassicurare il Paese e indebolire il nemico non ha sortito l’effetto desiderato. I talebani erano in città meno di tre giorni dopo.
Qarib ha 30 anni, una moglie e due figli piccoli. Un buon lavoro anche. E dall’Afghanistan non vorrebbe uscire, c’è la sua vita, la sua comunità, i suoi risparmi, tutti investiti in una bottega e in una casa. Non avrebbe voluto scappare, ma era in fila all’ufficio passaporti a Kabul, il giorno prima che la città cadesse. Arrivavano notizie strazianti dai parenti lontani, dai familiari che vivevano sotto le aree controllate dai talebani, già da qualche settimana: donne segregate, scuole chiuse. Collaboratori degli americani trucidati. Attivisti scomparsi.
Sua moglie per due anni aveva lavorato come traduttrice per un’organizzazione umanitaria internazionale, e Qarib pensa che anche lei sia in pericolo. Che rischi di finire come troppe donne, attiviste, freddate in questi anni. Punite per essersi esposte. «Devo portarli via, lei e i miei figli», dice. «Non mi perdonerei se accadesse loro qualcosa». Aveva ricevuto una telefonata, Qarib, mentre parlava con noi. Dopo aver chiuso la comunicazione aveva detto: «È caduta Maidan Sharh, ormai è questione di ore».
Maidan Shahr è la capitale della provincia di Wardak, l’ultima porta prima di Kabul. «Non è più questione di se, è solo questione di quando», aveva detto Qarib. Una profezia. «Non sarà difficile entrare per i talebani perché hanno bisogno delle truppe occidentali e contemporaneamente non ne possono più. Ma ora sta vincendo il secondo sentimento: non ne possono più di voi». Anche noi avevamo respirato la medesima sensazione pochi giorni prima e proprio a Maidan Sharh, porta fortificata di Kabul. Avevamo assistito ai funerali di due soldati uccisi dai talebani. Le due bare erano disposte in una stanza adiacente alla base delle forze speciali dell’esercito afgano. Circa 50 uomini pregavano in ginocchio. La vista di due occidentali giunti in Afghanistan per raccontare le conseguenze del ritiro delle truppe statunitensi ha suscitato una palese ostilità tra gli afgani: «Ci avete invaso, ci avete illuso con la vostra libertà e poi ve ne siete andati. E ora avete ripreso a bombardarci con i vostri B-52. Andate via, non siete più i benvenuti», ci aveva gridato un uomo in fondo alla stanza. Gli altri, prima silenziosi, si erano uniti al coro: «Andate via!».
Era vero. Gli americani avevano ricominciato a bombardare le posizioni talebane con i B-52. Spiegare agli afgani quale fosse il senso di quei bombardamenti mentre i talebani si prendevano il Paese non era possibile. Non capivano loro, non capivamo noi. Ma ci era chiaro, camminando nel Paese, che Kabul era questione di ore, non di mesi come sosteneva il Pentagono. Il 14 agosto Maidan Shahr è caduta. Il governatore, che fino a poche ore prima si mostrava tronfio e battagliero, pronto a riunire le truppe contro il nemico, era fuggito coi suoi uomini, in salvo. Mentre Kabul si preparava alla sua notte peggiore, era chiaro che il Paese stesse per dividersi tra chi poteva garantirsi una fuga in sicurezza all’estero e chi era destinato a fare i conti con nuovo futuro, quello in mano ai talebani. «Non c’è via d’uscita e non c’è un posto dove andare», «non c’è un posto sicuro in Afghanistan». Sono le frasi che più abbiamo ascoltato in quasi venti giorni di Afghanistan.
La notte del 15 agosto Kabul è scoppiata di rumore e paura. Il rumore era quello del ponte aereo che spostava i dipendenti dell’ambasciata americana verso l’aeroporto. La paura quella dei cittadini di Kabul che apprendevano le notizie dalla tv e dai social: i talebani sono a 12 km, i talebani hanno assaltato la prigione liberando i prigionieri, i talebani occupano i distretti di polizia. I talebani hanno preso la città. Tanto più si faceva alto il rumore delle evacuazioni, tanto più gli afgani si riversavano all’aeroporto (nemmeno quello un posto sicuro). L’Occidente era in fuga e i talebani, ormai vittoriosi, mettevano in scena la loro versione presentabile. Nella sua prima comunicazione pubblica dopo la caduta di Kabul, persino il mullah Abdul Ghani Baradar, il nuovo presidente ad interim, ha assunto un tono non ostile. «Abbiamo raggiunto una vittoria che non ci aspettavamo», ha detto in un messaggio ai talebani. «Dobbiamo mostrare umiltà davanti ad Allah. (...) Ora è il momento dei test, ora si tratta di come serviamo e proteggiamo le persone e assicuriamo loro una buona vita al meglio delle nostre capacità».
Ma queste comunicazioni, che ormai vanno avanti da tempo, sembrano rivolte non tanto ai cittadini afgani quanto alle potenze straniere. Quelli che non corrono rischi, che se ne stanno andando. E che hanno tempo per andarsene fino al 31 di agosto. Le ambasciate occidentali si sono affrettate a evacuare i propri cittadini, compresi gli operatori umanitari internazionali, aggravando i problemi per gli afgani. La grande popolazione di sfollati interni dovrà ora fare a meno degli aiuti esteri e dell’illusione di libertà cui aveva creduto per vent’anni.
È caduta Kabul e insieme a lei è caduto il Governo Ghani, corrotto, imposto, delegittimato, non amato. È caduta Kabul e sono già in fuga tutti i signori della guerra che fino a pochi giorni fa giuravano di essere disposti a versare fino all’ultima goccia di sangue per difendere il Paese dalla furia oscurantista. Oggi osservano quella furia impadronirsi del Paese dal comodo, temporaneo esilio. Qualcuno resterà via, qualcuno tratterà con il nemico.
Cade Kabul e chi può scappa. Nel Paese, troppo umili, troppo ordinari, restano milioni di cittadini in balia della paura, con una moneta in caduta libera, un’economia che dipende dagli aiuti internazionali, e metà del Paese che vive in uno stato di bisogno. Restano lì, come il nostro traduttore, collega, amico, che non abbiamo fatto in tempo ad abbracciare. Bevevamo tè insieme poche ore prima che ci sfollassero. Non abbiamo fatto in tempo a salutarci. «Sarà per la prossima volta», ci siamo detti al telefono in questi giorni. Mentre noi eravamo al sicuro e lui nascosto in casa per paura di ritorsioni, perché ha lavorato come traduttore e autista per i giornali internazionali. «Alla prossima volta», ho risposto io, scaramanticamente, o forse con l’ingenuità di una speranza che serve a mascherare il timore che non sia così. Il giorno del nostro arrivo a Kabul, mentre ci accompagnava in hotel, in quella che sarebbe diventata la nostra dimora blindata e protetta per qualche settimana, ci aveva detto: questa è la differenza tra noi e voi. Voi potete proteggervi, noi no. Oggi è quanto mai vera. Noi siamo potuti andare via, lui e altri milioni di afgani no.
«Non c’è più un posto sicuro»
La nostra collaboratrice ricorda i suoi ultimi giorni in Afghanistan e la fuga dei più fortunati. Intanto lo Stato islamico attacca l’aeroporto, simbolo di libertà
/ 30.08.2021
di Francesca Mannocchi
di Francesca Mannocchi