C’è voluta una settimana di agitate reazioni, dopo l’annuncio di Donald Trump che l’America «esce» dagli accordi di Parigi, prima che il «New York Times» ricordasse un dettaglio banale eppur decisivo. Gli Stati Uniti non possono uscire da quegli accordi! Non ora. È prevista la possibilità di sottrarsi a quel patto solo nel novembre 2020. Guarda caso sarà la scadenza del primo mandato presidenziale di Trump. E qualora Trump non venisse rieletto, basterebbe un preavviso di poche settimane al suo successore per reintegrare gli Stati Uniti dentro l’accordo di Parigi. Da qui alla fine del 2020 la delegazione americana continuerà a partecipare a tutti i summit mondiali sull’applicazione di quegli accordi.
Tuttavia c’è qualcosa di poco convincente, perfino di francamente ipocrita, nella levata di scudi contro Trump. Mi spiego: non c’è nulla di condivisibile nella sua decisione, che a mio avviso è deleteria e dettata da calcoli politici meschini (su cui torno più sotto). Quello che non mi convince è la rappresentazione che si è imposta, la narrazione dominante su questo evento: siamo un mondo di ambientalisti uniti contro un presidente cattivo? Anche in America, a leggere i media progressisti, si direbbe che siamo una maggioranza in favore della lotta al cambiamento climatico, e lui ci ha traditi.
La mia esperienza di vita americana da 17 anni m’insegna che la realtà è ben diversa da questa rappresentazione di un presidente estremista e quasi isolato. In realtà Trump esprime a modo suo – cioè con un sovrappiù di rozzezza e di arroganza – un modello di vita e un sistema di valori che gli americani praticano quotidianamente. Anche tanti di noi che si considerano ambientalisti, hanno dei consumi che vanno nella direzione opposta. Gli esempi sono innumerevoli. Chi di voi conosce l’America anche solo da turista, capirà di cosa parlo. A New York, dove io abito, è cominciata la stagione del golf di lana.
Con l’arrivo dell’afa newyorchese bisogna uscire di casa con un maglione. Più fa caldo fuori più fa freddo dentro: in ufficio o in aereo, al ristorante o al cinema, e perfino nel metrò, si entra in atmosfere polari. Guai ad arrivare impreparati, dal forno esterno entri in un freezer, ogni volta che passi attraverso un portone è come se cambiassi latitudine, dai tropici all’Artico. Aumenta perfino il rumore già assordante di Manhattan: ora si aggiunge il rombo stagionale di tutti i condizionatori d’aria. Orribile spreco d’energia, inquinamento inutile. Già, però il nostro sindaco Bill de Blasio è stato veloce a condannare Trump e a proclamare che New York andrà avanti sulla strada degli accordi di Parigi per la lotta al cambiamento climatico. Lo stesso ha dichiarato il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, democratico come de Blasio. Belle parole, ma costano poco.
Il più importante pronunciamento è venuto dalla California governata anch’essa da un leader di sinistra, Jerry Brown: ha ribadito fedeltà agli accordi di Parigi. Poiché la California è il più grosso degli Stati Usa, e con un Pil superiore alla Francia starebbe dentro il G7 se fosse una nazione indipendente, la sua decisione è considerata come una sfida formidabile contro Trump. Però l’ultima volta che ho fatto una passeggiata per le vie di Los Angeles ho avuto paura di essere arrestato. Ero l’unico pedone, mi sentivo a disagio, gli automobilisti mi osservavano come un individuo sospetto. Anche se il supermercato o la scuola dei bimbi dista un quarto d’ora a piedi, una mamma di Los Angeles guida un Suv che potrebbe trasportare una squadra di pallavolo.
Nel mio appartamento di New York – come in tanti grattacieli – non c’è neppure il contatore dell’elettricità, tanto costa poco, per semplificarci la vita si paga la luce in modo forfettario nelle spese condominiali: un incentivo allo spreco, visto che non sai neppure quanto consumi. La raccolta differenziata non sappiamo cosa sia, guardate le montagne di sacchi di plastica neri che si accumulano sui marciapiedi di Manhattan: è tutta «indifferenziata».
Alla luce di questi esempi concreti, tratti dal nostro stile di vita quotidiano, non mi convince l’indignazione con cui gli americani progressisti hanno reagito alla decisione di uscire dagli accordi di Parigi. Trump è un ignorante. La buona coscienza degli altri, però, mi sembra ipocrita. Ad ogni angolo di strada, ad ogni gesto banale della vita quotidiana, da quando abito in America osservo un popolo sprecone, energivoro, che dell’ambiente se ne frega. Dalle loro auto ai loro camion con le ciminiere fumanti, dall’iper-riscaldamento invernale all’iper-raffreddamento estivo, dall’agro-business all’edilizia, basta aprire gli occhi per capire che Trump è solo più volgare e prepotente, ma è l’espressione di una cultura nazionale. Figlia anche di una nazione che ha sempre avuto – e in parte ha tuttora – troppo spazio, troppa natura, troppe risorse a propria disposizione. Gli Stati Uniti sono uno spazio molto vasto, solo in poche aree lungo le due coste c’è una forte densità abitativa; la maggior parte del territorio nazionale è ancora semi-vuoto, questo crea l’illusione che si possa continuare a sprecare senza pagarne le conseguenze.
Questo presidente regala a «noialtri» una coscienza impeccabile che non ci meritiamo affatto. Ho lo stesso timore quando allargo lo sguardo al resto del pianeta. Virtuosa la Germania? Ma se Volkswagen truccava i dati dell’eurodiesel, molto più inquinante del dovuto, colossale impostura ai danni dell’ambiente? Lo stesso è vero, peraltro, di Fiat-Chrysler.
Virtuosa la Cina che resta «dentro» Parigi? Ci ho vissuto cinque anni e ci torno regolarmente: a Pechino il governo nasconde o falsifica i dati sull’inquinamento, per conoscere la verità sull’aria che si respira bisogna consultare il sito dell’ambasciata americana. Il peggior pericolo a cui Trump ci espone è questo autocompiacimento, quest’illusione troppo comoda che il problema sia lui. Tra l’altro nella dichiarazione con cui Trump annunciò di voler ripudiare Parigi, c’era nascosta una verità molto sgradevole. Come spesso accade, in mezzo a tante nefandezze questo presidente «infila» degli scampoli di verità. In questo caso si tratta delle condizioni transitorie che Obama concesse alla Cina e all’India: per loro gli accordi di Parigi prevedono un periodo ancora molto lungo in cui continueranno ad aprire nuove centrali elettriche a carbone. Quindi i due colossi emergenti continueranno ad aumentare le proprie emissioni carboniche ancora per molti anni, prima di cominciare a ridurle. Se mai lo faranno.
Vengo alle motivazioni di politica interna che hanno ispirato la mossa di Trump. È un gesto provocatorio, gratuito, perfino inutile. Avrebbe potuto scegliere la linea dell’ipocrisia, come consigliava sua figlia Ivanka: mantenere un’adesione di facciata a quegli accordi, che nei fatti lui ha già svuotato. Nei suoi primi 100 giorni infatti il presidente aveva firmato una raffica di ordini esecutivi per cancellare le riforme ambientaliste di Obama, liberalizzare le trivellazioni, autorizzare nuovi oleodotti, abrogare i limiti alle emissioni carboniche per auto e centrali elettriche. Poiché gli accordi di Parigi non prevedono sanzioni per gli inadempienti, l’America trumpiana avrebbe potuto fare il doppio gioco, perseguire la restaurazione fossile pur fingendo di restare nel concerto delle nazioni.
Trump ha scavalcato a destra perfino il suo segretario di Stato, Rex Tillerson, fino a poco tempo fa chief executive della compagnia petrolifera Exxon Mobil. Tillerson, che propendeva per la «linea della furbizia» di Ivanka, non voleva arrivare a questa rottura. La stessa Exxon si era pronunciata per la conferma di Parigi. Come tutte le multinazionali del Big Oil, anche la Exxon ormai ha diversificato i suoi investimenti, nel portafoglio delle sue attività figurano pure le energie rinnovabili. Gran parte dell’industria americana e mondiale ha incorporato gli accordi di Parigi negli scenari futuri, per avere un quadro di certezze, pianificare le proprie strategie in un mondo gradualmente post-carbonico. Tra le lobby del capitalismo americano c’è poi tutta l’industria del solare, dell’eolico, dell’auto elettrica sulla quale investono Tesla, Apple, Google, nonché Ford e General Motors.
Quindi Trump ha obbedito solo a un istinto politico, non a una convenienza economica. Cancellare Parigi sembra un’inutile provocazione verso il resto del mondo, ma è un gesto che viene percepito in modo ben diverso dalla base elettorale di Trump. Questo presidente, assediato dall’inchiesta sul Russiagate che colpisce il cerchio dei suoi intimi, è di nuovo in campagna elettorale. Perciò sente il bisogno di rimanere fedele al «negazionismo ambientale»: troppe volte nei suoi comizi Trump disse che il cambiamento climatico è «una bufala inventata dai cinesi (sic) per danneggiare l’industria americana». Il negazionismo climatico, insieme con la sfiducia verso la scienza, la diffidenza verso gli esperti, sono pezzi portanti dell’universo immaginario della destra, quella bolla di fake-news che sono diventate veri e propri collanti identitari.
Non si buttano via a cuor leggero certezze su cui si è investito a lungo, che fanno parte del patrimonio «emotivo» su cui la tribù della destra si compatta. Lo stesso vale per quel simbolo malefico che sono gli «accordi internazionali». Qualsiasi cosa sia stata sottoscritta in una sede multilaterale, un G7 o un G20 o peggio ancora sotto l’egida delle Nazioni Unite, è sospetto agli occhi della destra americana. America First, lo slogan più popolare di Trump, è la promessa di un nazionalismo che rigetta ogni cessione di sovranità.