Nessuno deve sentirsi al sicuro

Reportage - L’esercito russo applica da settimane una strategia del terrore, bombardando anche località che fino a ieri non erano toccate dalla guerra, per fiaccare la resistenza degli ucraini
/ 01.08.2022
di Francesca Mannocchi

Quando Ivan sale alla guida del suo mezzo militare ha il volto più scuro di due mesi fa. L’ultima volta che ci eravamo visti era maggio, l’esercito ucraino stava riconquistando posizioni a nord di Kharkiv, le forze ucraine hanno respinto con forza ogni avanzata russa e hanno cominciato a usare la città come base per distruggere colonne di equipaggiamento russo che tentavano di viaggiare verso occidente da est. La città cominciava finalmente a respirare dopo settimane di incessanti attacchi missilistici che avevano colpito luoghi simbolici come Piazza della Libertà e devastato l’intero quartiere di Nort Saltivka.

Putin sembrava aver ridimensionato i suoi obiettivi dichiarati alla fine di febbraio, sembravano lontani i giorni dell’assalto a Kiev, con i paracadutisti che erano arrivati nella capitale per colpire il cuore dello Stato, rimuovere il Presidente Zelensky e fare dell’Ucraina uno Stato vassallo sul modello della Bielorussia.

Ivan era fiducioso che i villaggi liberati lo sarebbero rimasti, che il sollievo delle persone che tornavano alla vita dopo mesi di occupazione russa sarebbe diventato la norma. Invece a luglio l’aria a Kharkiv era di nuovo cupa, di nuovo grave. «Pensavamo che l’offensiva di terra intorno Kharkiv fosse finita – dice Ivan – invece avevamo gridato vittoria troppo in fretta. Oggi hanno cambiato strategia, da qui non possiamo che definirla strategia del terrore. Colpiscono senza un criterio, ammesso che in guerra ne esista uno, uccidendo civili a ogni ora del giorno».

Le parole di Ivan sintetizzano la situazione che la seconda città del paese sta vivendo da qualche settimana. Attacchi indiscriminati su edifici civili che, secondo le istituzioni locali, hanno provocato la morte di almeno cinquanta persone. Quando parla di strategia del terrore, Ivan racconta lo stato d’animo che molti ucraini stanno vivendo soprattutto dopo i recenti attacchi al centro commerciale di Kremenchuk e nel centro città di Vinnytsia: attacchi avvenuti in pieno giorno, in luoghi frequentati da civili, in città risparmiate dai combattimenti e distanti centinaia di chilometri dal fronte.

Questo tipo di eventi, per i cittadini, recano con sé un messaggio molto chiaro: nessuno deve sentirsi al sicuro da nessuna parte. «Per la Russia – continua Ivan – continuare a provocare vittime civili nelle zone di Kharkiv significa impedire alla popolazione di tornare a una forma di stabilità precedente al 24 febbraio. Oggi la Russia vuole punirci, piegare lo spirito combattivo della città e assicurarsi che la prossima volta che una colonna di mezzi russi attraverserà i villaggi vicini al confine in direzione di Kharkiv, la gente si arrenderà all’invasore».

Il morale dei soldati lungo i villaggi diventati di nuovo linee del fronte non è molto diverso. I nuovi missili Himars ad alta precisione e lunga gittata qui non sono ancora arrivati e l’inferiorità dei mezzi si fa sentire. Nelle trincee, dove si vive come durante la prima guerra mondiale, l’entusiasmo per le consegne di armi tanto celebrate in Occidente sembra un mondo lontano. Lì, nascosti sottoterra, si contano le munizioni: «abbiamo un pezzo d’artiglieria ogni quindici dei loro» dice Andrii, della 127 brigata di fanteria, incontrato in una base militare di cui chiede di non rivelare la posizione per ragioni di sicurezza, «quando ci mandano qui sappiamo che stiamo andando a morire».

L’esercito ucraino sta rafforzando le posizioni a nord di Kharkiv perché teme che la Russia potrebbe lanciare un nuovo attacco di terra nel prossimo futuro. È la loro tattica, dice ancora Andrii «iniziano con attacchi missilistici, poi arriva l’artiglieria pesante e poi si spostano con carri armati e fanteria. Un copione sempre uguale, che si sta ripetendo».

Ivan attraversa i chilometri che separano la città dai villaggi vicino al confine che sono tornati a essere una linea del fronte. Villaggi feriti, fatti di strade deserte e piccole abitazioni di legno danneggiate dai missili, crateri sull’asfalto. Città fantasma. Si ferma in ogni paese, intorno il rumore dei colpi d’artiglieria a ricordare che la guerra non solo non è rallentata, ma si sta riavvicinando. Da lontano si vedono colonne di fumo che si alzano dagli edifici colpiti.

Nella città di Zolochiv, a soli quindici chilometri dal confine russo, sono rimasti solo gli anziani. Le famiglie sono andate via tutte, i bambini sono stati sfollati con le madri, così pure i malati e i disabili. Resta la bottega di Ludmylla, l’unica aperta, al bordo della strada. L’interno del suo negozio è buio, l’elettricità a Zolochiv è saltata all’inizio di marzo e da allora nessuno l’ha ripristinata. Ludmylla avrebbe potuto andare via, ma oltre a essere la proprietaria del negozio, è anche la responsabile della comunità e, dice, non poteva lasciare soli gli anziani che non vogliono andare via. Gli scaffali del suo negozio sono semivuoti, restano ancora un po’ di formaggio, le verdure che riesce a procurare, le uova, il pane. Non si lamenta, non chiede spiegazioni, non vuole dare colpe a nessuno: «la guerra ormai è qui, arriverà il tempo delle responsabilità, ora è tempo di aiutarsi gli uni con gli altri, è il tempo della comunità, non dei processi».

Prepara un caffè, ringrazia Ivan per aver portato qualche scatola di beni alimentari, garantisce che saprà distribuirli alle persone bisognose. Lei sa dove vivono, sa che da Zolovich non se ne andranno. Per due ragioni, spiega. La prima è l’età, pensano di aver vissuto abbastanza e se morte deve essere che almeno sia a casa loro. La seconda è che non capiscono questa guerra. Non capiscono perché i russi abbiano invaso casa loro. Non comprendono le ragioni per cui le loro famiglie che vivono oltreconfine siano d’improvviso diventate nemiche.

Così è per Oleg, un ottantenne che vive poco distante dalla sua bottega. Suo figlio vive a Belgorod, in Russia, da trent’anni, ha combattuto nell’Armata Rossa. Negli anni i rapporti tra i due si sono allentati fino a farli allontanare del tutto. Quando casa di Oleg è stata colpita da un missile russo, l’uomo ha chiamato il figlio per raccontargli l’accaduto: avrei potuto morire, gli ha detto, raccontando di quanto era da poco accaduto al suo vicino, un veterano della seconda guerra mondiale che aveva combattuto per cacciare i nazisti ed era rimasto vittima dell’offensiva del Cremlino in Ucraina. Il paradosso della storia.

Suo figlio però non gli ha creduto. Non erano missili russi, gli ha detto, sono «i nazisti ucraini che distruggono le vostre città». Vostre, gli ha ripetuto più volte, come se Zolochiv non fosse stata, un giorno, anche casa sua. Da allora Oleg non ha più provato a chiamarlo, non si sono più parlati. Era la metà di marzo. È con questo peso che si vive oggi nelle terre di confine.

Quando sale di nuovo sul suo mezzo in direzione di Kharkiv, Ivan ha il volto ancora più cupo. «La guerra è già diventata lunga, e quando i conflitti diventano cronici alimentano gli odi di domani», poche tragicamente limpide parole per dire che quanto più a lungo prosegue la guerra militare, tanto più sarà alto il rischio che si radicalizzeranno posizioni estremiste, odi. È già così nella società russa nutrita dalla propaganda del Cremlino, comincia a essere così anche in Ucraina, dove intere città stanno attuando dei piani di derussificazione. Vengono cambiati i nomi delle vie, banditi i partiti politici considerati filorussi, rimosse statue raffiguranti grandi autori e filosofi e musicisti di origine russa. Anche su questo Ivan ha una spiegazione: «quello che per voi in Europa è espressione della storica cultura russa, per noi è sinonimo di un passato coloniale. Per noi Dostojevsky rappresenta la radice dell’esercito invasore».

Poco prima di arrivare nella sua base a Kharkiv, Ivan riceve una telefonata. È sua moglie. È scappata a febbraio con i due figli a Vinnitsya, pensando che quella città, al centro del paese, sarebbe stata risparmiata dai missili. Per quattro mesi hanno vissuto distanti ma nello stesso paese. Dopo l’attacco del mese scorso, la moglie di Ivan ha deciso di lasciare il paese. Ivan li guarda dallo schermo del telefono, abbozza un sorriso che non riesce a essere naturale. Dice loro buon viaggio. E poi, una volta chiusa la telefonata, ripete: questa è la strategia del terrore, nessuno si sente più sicuro in nessun luogo, qui.